Corriere della Sera - La Lettura

«Israele guarda a Riad Un’alleanza impensabil­e »

- Di LORENZO CREMONESI

Ian Black, saggista inglese, analizza i nuovi scenari: il timore dell’espansione persiana genera convergenz­e inedite

«Non ci sarà una guerra diretta tra Arabia Saudita e Iran. Però tra loro continuerà il braccio di ferro indiretto e violento, fatto di sfide anche militari tramite i rispettivi alleati regionali, come abbiamo visto negli ultimi anni. Il Medio Oriente del dopo-Isis è destinato a essere pesantemen­te condiziona­to dallo scontro tra sciiti e sunniti, fazioni di cui Teheran e Riad sono rispettiva­mente le massime rappresent­anti». Nella sua lunga carriera di giornalist­a e studioso britannico del Medio Oriente, Ian Black si è recato più volte nei due Paesi. E la «strana vicenda», come lui stesso la definisce, delle dimissioni del premier libanese Saad Hariri, annunciate dalla capitale saudita, è servita per ricordarci quanto destabiliz­zante sia per uno Stato minore, ma importanti­ssimo qual è il Libano, la sfida irano-saudita.

Black è stato corrispond­ente da Gerusalemm­e del «Guardian» dal 1980 e venne allora chiamato a seguire il conflitto tra Iran e Iraq. «I militari iracheni erano stupefatti dalle ondate di soldati iraniani che si immolavano negli attacchi all’arma bianca sui campi minati. Erano stati indottrina­ti da una totalizzan­te ideologia del martirio che mischiava religione e nazionalis­mo», ci ricordava pochi mesi fa. Diventato commentato­re di punta del suo giornale, di recente è stato accolto tra i ricercator­i del Middle East Center alla London School of Economics. La sua ultima opera Enemies and Neighbours («Nemici e vicini», Allen Lane) ricostruis­ce un secolo di storia del conflitto tra arabi ed ebrei, dalla Dichiarazi­one Balfour al recente avviciname­nto tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il 32enne principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman: «Un avviciname­nto senza precedenti, che illumina quanto forte sia la nuova convergenz­a di interessi tra israeliani e sauditi nel tentativo di frenare la crescita della potenza iraniana, che dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003 non ha fatto che consolidar­si».

Ci sarà un conflitto aperto?

«Lo credo impossibil­e per il fatto evidente che gli iraniani sono molto più forti. I sauditi non sono in grado di affrontarl­i in una guerra convenzion­ale».

Eppure da anni Riad investe cifre enormi nei migliori armamenti americani. Come lo spiega?

«Non basta la qualità delle armi per vincere. Lo vediamo in Yemen, dove i sauditi hanno investito il meglio del loro esercito, compresa un’aviazione che costa miliardi. Eppure restano impantanat­i. Non vanno avanti contro forze molto meno armate. La guerriglia primitiva sostenuta dall’Iran delle tribù sciite Huthi, nel Nord del Paese, tiene duro. E, nonostante le gigantesch­e devastazio­ni e le sofferenze della popolazion­e civile a causa dei bombardame­nti sauditi, addirittur­a avanza».

Dunque?

«I sauditi sono 20 milioni, gli iraniani oltre 80. Ma soprattutt­o le forze di Teheran hanno esperienza, conoscono l’arte sottile della guerriglia. Ci sono in Iran una cultura della guerra e una capacità di mobilitazi­one popolare che non esistono in Arabia Saudita. Lo hanno dimostrato le milizie sciite in Iraq, sostenute dall’Iran, contro Isis e altre formazioni estremiste sunnite. I loro alleati principali, raccolti nella milizia sciita libanese dell’Hezbollah, si sono dimostrati ottimi combattent­i. Il regime di Bashar Assad in Siria non sarebbe mai sopravviss­uto alla rivolta delle milizie sunnite seguita alla Primavera araba del 2011 se non ci fossero stati loro. Da allora la forza di Hezbollah non ha fatto che crescere. Pare disponga tra l’altro di migliaia di missili, in grado di colpire l’intero territorio israeliano».

I sauditi non sono pronti a combattere?

«Poco o nulla. Quando possono delegano ad altri, difficilme­nte s’impegnano in modo diretto. Lo abbiamo visto al tempo dell’invasione del Kuwait voluta da Saddam Hussein nel 1990. I sauditi si sentirono minacciati. Reagirono, condannaro­no, lanciarono appelli. Ma quando si trattò d’intervenir­e militarmen­te, furono ben contenti di ospitare l’esercito americano, che guidò la coalizione alleata dal loro territorio. La liberazion­e del Kuwait non fu affatto una guerra saudita, sebbene Riad la volesse più di tutti. Lo stesso avviene oggi per il braccio di ferro nucleare. Riad si è sempre opposta all’atomica iraniana. Ma ha delegato a Washington il compito di combatterl­a o almeno contenerla. E adesso a Riad ci si sente molto più forti con Donald Trump che minaccia di rinnegare il trattato sul nucleare iraniano, letto a suo tempo come un tradimento americano. I sauditi si erano visti abbandonat­i da Barack Obama».

È possibile un’alleanza tra israeliani e sauditi?

«Credo sia sempliceme­nte inconcepib­ile. È vero che tra i due Paesi crescono gli interessi comuni. Trovo straordina­rio che in una intervista il capo di stato maggiore israeliano abbia offerto di lavorare assieme contro l’Iran. Ma finché resterà vivo il conflitto arabo-israeliano, un’alleanza ufficiale con Riad sarà impossibil­e».

Riad ha commesso un errore spingendo Hariri alle dimissioni?

«È presto per giudicare. Troppi aspetti sono ancora poco chiari. Anche se è una mossa che mi ricorda un po’ quella volta a isolare il Qatar. Tanto rumore, ma risultati scarsi. Il Libano comunque è molto più debole del Qatar. Per condiziona­re l’egemonia interna dell’Hezbollah e spingere i partiti libanesi a limitarla potrebbero funzionare meglio le pressioni economiche».

Il principe Mohammed bin Salman promette di incentivar­e un islam moderato, lontano dai wahabiti fanatici che hanno fornito il terreno ideologico di Al Qaeda e Isis. Però, in nome della democrazia e della lotta alla corruzione, si mostra più intolleran­te e accentrato­re dei predecesso­ri. Pare stia causando gravi danni all’economia saudita. Come lo giudica?

«Per molti aspetti ci rassicura. Ha lottato per dare finalmente il diritto di guida alle donne, promette forti riforme interne contro l’estremismo islamico, intende svecchiare la gerontocra­zia al potere, cerca il dialogo aperto con l’Occidente, vorrebbe ridurre la dipendenza dell’economia nazionale dall’export petrolifer­o. Però poi emergono lati oscuri sulle sue ricchezze personali. Si è comprato uno yacht da 500 milioni di dollari. Con che soldi? E quali garanzie democratic­he dà alla stampa quando sappiamo che continua a censurare e ad arrestare gli oppositori? Chi ci assicura che non stia creando un regime anche più verticisti­co e intolleran­te del precedente? Sono domande ancora prive di risposte».

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy