Corriere della Sera - La Lettura
Marcello Simoni svela gli enigmi dell’abbazia
Il monastero di Pomposa, a Codigoro in provincia di Ferrara, è uno dei simboli del monachesimo occidentale. Marcello Simoni lo ha eletto a luogo d’eccellenza dei suoi romanzi storici. E ora gli ha dedicato un saggio. Qui accompagna «la Lettura» alla scope
«Il reverendo Andrea anelava a un ritorno ai tempi dello splendore. Tempi in cui i monaci non cantavano la messa davanti a chiazze grigie che ora, come nebbie infauste, precludevano agli sguardi il rapimento delle immagini sacre. Tempi in cui, entrando nel monasterium di Pomposa, si era soliti esclamare Beati oculi qui vident ».
«Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete», frase tratta dal Vangelo di Luca, è impressa nell’abside della basilica medievale di Santa Maria di Pomposa, a Codigoro (Ferrara), una delle più importanti del Nord Italia. E quel nostalgico reverendo Andrea è uno dei protagonisti della «Codice Millenarius Saga» dell’autore di thriller storici Marcello Simoni, ma anche un personaggio realmente esistito: l’abate di Pomposa, la mente dello straordinario ciclo di affreschi custodito tra quelle antiche mura.
«La Lettura» ha visitato il complesso monastico — di cui si hanno notizie a partire dal IX secolo, giunto allo splendore di cui parla Andrea intorno all’anno Mille — proprio in compagnia di Simoni. Oltre ad ambientarvi i volumi della sua terza saga ( L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni), lo scrittore ha dedicato alla basilica anche il recente saggio I misteri dell’abbazia di Pomposa. Immagini, simboli e storie, edito da La nave di Teseo. Leggerlo è come entrare nel dietro le quinte dei romanzi, toccare con mano il lavoro preparatorio che proprio poche settimane fa al nostro supplemento (#311, 12 novembre) Simoni ha detto di fare ogni volta, per almeno un me- se, prima di iniziare un libro. In questo caso si tratta di molto di più. Lo scrittore è nato e vive a Comacchio (Ferrara), a circa 20 chilometri da Codigoro. «Pomposa fu il mio primo contatto con il Medioevo, quando ero ancora un bambino. Allora non sapevo che cosa fosse il Gotico ma amavo già inventare storie. E quella a cui ero di fronte, lo capii subito, era una storia grandiosa».
Simoni ci guida qui, dentro Pomposa, con lo stesso passo con cui avanza nei romanzi. Indizio dopo indizio, tra i vari enigmi che restano ancora aperti tra queste navate. «Uso la parola enigma — chiarisce — nell’accezione moderna, nel senso di rompicapo. Perché è così che risultano ai nostri occhi di contemporanei alcune vicende o immagini che invece erano chiare all’uomo medievale, per il quale ogni cosa non era solo se stessa ma anche simbolo di altro. Questi affreschi sono stati per me una grande occasione per capire la forma mentis dell’epoca, per immaginare le vite dei monaci, artigiani, pittori, miniaturisti che ruotarono attorno all’abbazia».
L’abate ambizioso
«I dipinti che oggi vediamo srotolarsi come una pergamena enorme — spiega Simoni — si sviluppano in tre fasce sovrapposte lungo la navata centrale e narrano episodi dell’Antico Testamento, del Nuovo Testamento e dell’Apocalisse per culminare, nella controfacciata, con il Giudizio Universale». Rappresentano, cioè, una Biblia pauperum, la Bibbia dei «poveri di mente» che non sapevano leggere, ma anche una historia Salutis, la storia della Salvezza. E rivelano, come vedre- mo, diversi livelli di interpretazione e una consapevolezza teologica più profonda di quello che si potrebbe pensare inizialmente. Come testimonia un’iscrizione, l’affresco fu realizzato intorno al 1351. «E questo è già un primo mistero», fa notare lo scrittore.
La peste nera era appena passata con la sua eredità di morte e rovina. Il monasterium Pomposiae non era più il cenobio di cento monaci che era stato intorno all’anno Mille, dotato di una ricca biblioteca, di una florida economia curtense e di una tradizione di canto risalente a Guido d’Arezzo (che però dovette lasciare l’abbazia per l’invidia degli altri religiosi). Le paludi attorno avanzavano, la comunità si era impoverita ed era sul punto di rivolgersi all’usura pur di saldare un debito di tremila fiorini d’oro con la Camera apostolica. Perché non si rinunciò al
nuovo affresco? «Di certo si voleva riscattare il centro monastico e salvarlo dalla decadenza», osserva Simoni.
Dietro c’è soprattutto la figura di Andrea di Fano, abate di Pomposa dal 1336 al 1361: proprio quel reverendo che l’autore mette al centro della sua saga. «Probabilmente — aggiunge Simoni — il religioso desiderava anche uniformarsi alla riforma cluniacense, che nei secoli centrali del Medioevo si diffuse in area padana». E secondo la quale, per dirla con lo storico e monaco francese Jacques Leclercq, «l’esigenza del bello è dappertutto, nella edificazione delle anime, come in quella del monastero», perché a Dio si arriva «attraverso le strade di ogni forma di bellezza». Andrea, ipotizza lo scrittore, mirava a entrare nella cerchia illustre dei cosiddetti «abati iconofili», ad essere quello che fu Desiderio per Montecassino. «Un’ambizione grande per chi amministrava un monastero agonizzante: segno di speranza, ma forse anche di superbia».
Il protagonismo di Andrea trova conferma nei dipinti. Alzando la testa verso l’abside, in ginocchio ai piedi della Madonna, con il volto glabro e senza aureola, ci appare proprio lui, l’abate. «Siamo in grado di identificarlo — illustra Simoni — perché c ’è un’iscrizione con il suo nome. Inoltre, non ha paramenti vescovili o cardinalizi, e il modo in cui è rappresentato corrisponde all’iconografia dell’epoca usata per la figura del committente».
Artisti misteriosi
Iniziamo a questo punto il viaggio tra gli affreschi. «Siamo nel pieno svi- luppo del Gotico», spiega Simoni. I dipinti dell’abside furono realizzati da Vitale da Bologna, rappresentante della scuola emiliana, mentre l’autore delle scene sulla navata e sulla controfacciata resta sconosciuto. Di sicuro intuiamo che si tratta di un artista che sovrappone tradizione e innovazione (insolita è ad esempio la forma rotonda del tavolo dell’Ultima Cena). «Un artigiano rimasto nell’ombra — dice lo scrittore — che rappresenta il più grande enigma di Pomposa».
Sul piano dell’invenzione, questo vuoto si trasforma in opportunità narrativa. Nella «Codice Millenarius Saga» l’ignoto artista esiste. Si chiama Gualtiero de’ Bruni e lo vediamo, nelle prime pagine de L’abbazia dei cento
inganni, mentre osserva «ora la volta dell’abside, ora la decorazione a fresco della parete sottostante. Un corteo di santi, angeli e beati (che) si raccoglieva intorno al Cristo Pantocratore, fondendosi alle proporzioni di un arco che diventava porta dell’eterno». «Nel corso degli ultimi anni — prosegue il testo — aveva fantasticato su come dipingere quel soggetto, variando nella propria mente l’ordine delle immagini, i colori e persino le sfumature delle ombre, alla ricerca della perfezione».
Nella realtà, invece, non si esclude che l’affresco sia opera di più mani. «Una coralità di maestranze, aiuti del- lo stesso Vitale oppure altri artisti dalla Romagna o dal Veneto», spiega Simoni. «Lo stile, molto creativo, è ora nervoso e corsivo, come nella parete settentrionale, ora morbido e disciplinato, come nella parete meridionale».
Una discrepanza che diventa anch’essa ghiotta occasione per la fantasia: nei romanzi Gualtiero de’ Bruni perde tragicamente due dita; fa di tutto per continuare a dipingere ma i risultati finiscono per avere un’impronta diversa da quelli precedenti. Lo vediamo doversi pure confrontare con la personalità dell’abate Andrea: figura che nella realtà storica, «agendo dietro le quinte, uniformò probabilmente il ciclo biblico sul piano narrativo, dottrinale e simbolico».
La faretra di Esaù
Per cogliere la sapienza teologica che presiede agli affreschi, Simoni ci fa scendere ancora più nel dettaglio. Ci spostiamo così davanti alla scena dell’Antico Testamento in cui Isacco viene scambiato dal padre Giacobbe per Esaù, mentre quest’ultimo esce per andare a caccia. «La sua faretra — fa notare lo scrittore — è davvero stravagante: un contenitore spigoloso, simile a un armadio, inadatto a qualunque funzione, se non a suggerire un messaggio nascosto». Simoni avanza un’interpretazione. Le edizioni della Bibbia più diffuse nel Medioevo, premette, erano quella di Agostino e la cosiddetta Vulgata, «per il popolo», attribuita a san Girolamo. Tra le divergenze, una riguarda proprio il momento in cui Isacco, mandando a caccia Esaù, lo invita a prendere le sue armi. Agostino rende la parola «armi» con vas e Girolamo con arma. «La faretra — deduce quindi lo scrittore — potrebbe essere la rappresentazione della parola arma, da non intendersi in senso stretto come “armi” bensì, affidandoci all’etimologia medievale, come armarium. Ecco perché la faretra assumerebbe l’improbabile forma di un parallelepipedo dotato di ante: un piccolo e simbolico armarium ».
Un altro esempio di intersezione tra immagine e Scritture è nella scena di Giuseppe e dei fratelli che ricevono la benedizione del padre Giacobbe. «In base ai canoni bizantini il patriarca avrebbe dovuto essere adagiato, invece siede in mezzo all’acqua, con Giuseppe proteso verso di lui», spiega lo scrittore. «Il dipinto potrebbe essere la traduzione in figura della profezia di Giacobbe nella Genesi: “Giuseppe è un albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami si stendono sopra il muro”». Nell’affresco Giacobbe sarebbe dunque la sorgente, Giuseppe l’albero proteso.
Lo spirito bibliofilo si fa ancora più evidente nell’Apocalisse e nel Giudizio Universale. Simoni ci mostra un particolare emblematico: la spada dalla doppia lama nella bocca di Cristo. «Una sorta di arma teologica — spiega — che in base ai testi dei Padri della Chiesa rappresenta l’Antico e il Nuovo Testamento».
Scorrendo l’Apocalisse ci imbattiamo in figure di una fantasia delirante che si susseguono come funamboli tra le arcate, mescolando folklore e simbolismo monastico. «Ma alla luce della forma mentis dell’epoca — esorta lo scrittore — non dobbiamo cogliervi un senso di precarietà. Le immagini sottendono una visione teologica che non annuncia la fine dei tempi. Non nell’immediato almeno. Prevale piuttosto il concetto del “tutto è compiuto”, che scavalca la Pomposa trecentesca, appena scampata per altro alla sua di Apocalisse: la peste». Assumendo il punto di vista degli uomini e delle donne del Medioevo — conclude Simoni — in queste scene «non vediamo tanto il tempo che ci separa dal Giudizio Universale quanto la rivelazione del progetto divino, una visione del futuro rivolta ai nostri sguardi, al nostro pensiero, al nostro coraggio».