Corriere della Sera - La Lettura
La bellezza è una scienza
Spesso la percezione di ciò che è piacevole e affascinante è considerata un’esperienza soggettiva, e in parte lo è. Ma c’è un’area del cervello che è sempre implicata in questo processo e la cui attività è misurabile. Di tali meccanismi si occupa la neuro
Le uniche realtà di cui possiamo avere esperienza sono quelle che il nostro cervello ci permette di provare. La bellezza è una di queste esperienze. Nessuno, tra coloro che apprezzano intensamente la bellezza di un’opera d’arte, di una composizione sinfonica o di una formula matematica, metterà in dubbio la realtà di quel che prova, che per quella persona assume una validità oggettiva. Di solito c’è una maggiore varietà di vedute su ciò che si considera bello anziché, ad esempio, sulle caratteristiche di un angolo retto. Per questa ragione la bellezza è spesso considerata un’esperienza soggettiva, che non rientra nell’ambito della ricerca scientifica. Il fatto che la neuroscienza ora affronti questo argomento fa infuriare i molti che considerano sia meglio lasciare lo studio della bellezza ai filosofi dell’estetica e agli storici dell’arte. La scienza non può affrontare, secondo loro, la questione di che cosa sia il bello.
È un atteggiamento che fraintende gli obiettivi della neuroestetica, che si occupa di una questione più limitata, cioè di quali siano i meccanismi neuronali coinvolti nell’esperienza del bello. Si tratta di una ricerca scientifica non diversa dall’indagare quali meccanismi neuronali siano coinvolti nella percezione dei colori o dei volti. All’interno di questo contesto più circoscritto, la neuroestetica comunque dipende spesso dai filosofi e dagli storici dell’arte e dell’estetica per inquadrare i punti da indagare. Il critico d’arte inglese Clive Bell sintetizzava bene la questione ai fini della neuroestetica quando, nel suo libro L’arte (1914, pubblicato in Italia da Aesthetica), si chiedeva che cosa abbiano in comune tutte le cose che suscitano un’emozione estetica. Né la filosofia né la storia dell’arte hanno dato una risposta a questa domanda fondamentale. La neuroestetica può invece farlo, anche se solo riferendosi al funzionamento del cervello. E la risposta si rivela sorprendente.
L’esperienza della bellezza derivata da fonti diverse, musicali, visive e anche morali, coinvolge diverse aree corticali, ma c’è un’area del cervello che è sempre implicata nell’esperienza della bellezza, indipendentemente dalla sua origine. Si trova nel cervello emotivo, ed è nota come field A1 della corteccia orbito-frontale mediale (mOFC), un’area che è anche coinvolta nelle sensazioni di gratificazione e di piacere, che sono entrambe legate all’esperienza della bellezza. Ancora più sorprendente è che l’esperienza della bellezza matematica, forse l’esempio più estremo di una bellezza condizionata dalla cultura e dall’apprendimento, sia anch’essa correlata ad attività della medesima area cerebrale.
Le filosofie dell’estetica si sono spesso chieste se i giudizi estetici possano essere quantificati ma non hanno dato risposte. La neuroestetica ha ora dimostrato che l’intensità dell’attività nell’mOFC è proporzionale all’intensità dell’esperienza estetica: più intensa è l’esperienza estetica, più intensa è l’attività nell’mOFC. Quindi non solo si può tracciare l’attività cerebrale correlata a un cosiddetto stato mentale soggettivo, ma si può anche misurarne l’intensità. Così la scienza ha portato alla luce fatti nuovi, imprevedibili e quantificabili sull’esperienza della bellezza, che dovrebbero essere incorporati nelle teorie estetiche.
Forse l’aspetto più interessante di questi studi riguarda l’esperienza della bellezza matematica, che Platone considerava la più alta forma di bellezza perché
credeva che attraverso essa si potesse conoscere la struttura del nostro universo. Quando la teoria della relatività di Einstein fu pubblicata per la prima volta, per molti era difficile da comprendere. Fu però ampiamente accettata grazie all’estrema bellezza delle sue formulazioni matematiche. Il fisico inglese Paul Dirac scrisse che la teoria della relatività importò la bellezza nella matematica in una misura senza precedenti, e mentre prima la prova della veridicità di una formulazione matematica risiedeva nella sua semplicità, dopo di allora la si doveva cercare nella sua bellezza.
Ma in che cosa consiste l’esperienza della bellezza matematica? Immanuel Kant pensava che una formulazione matematica è bella perché ha un senso. Ora possiamo approfondire questa domanda e chiederci: «Senso per che cosa?». La risposta ovvia è: per i sistemi logici deduttivi, induttivi e analogici del cervello. Questa è una risposta importante. Dal momento che matematici con diversa formazione e provenienza etnica e culturale possono percepire la bellezza di una formulazione matematica se hanno dimestichezza con il linguaggio matematico, ne deriva che devono tutti avere nel cervello gli stessi sistemi logici. Quindi l’esperienza della bellezza matematica è determinata biologicamente e appartiene alla categoria della bellezza biologica. Non sorprende che attraverso queste esperienze matematici e fisici siano stati in grado di afferrare verità sul nostro universo molto prima che fossero dimostrate sperimentalmente, proprio come immaginava Platone. Il positrone, il neutrino, i buchi neri, l’energia oscura, la materia oscura, le onde gravitazionali, sono stati espressi attraverso belle formulazioni matematiche molto prima che esperimenti ne convalidassero l’esistenza.
Questa, quindi, è un’area dell’estetica in cui non si discute di soggettività. La matematica, dopotutto, è la regina delle scienze. Un’indagine più dettagliata sulla bellezza come esperienza soggettiva solleva domande sulle esperienze soggettive in sé stesse, non sull’esperienza della bellezza. Le esperienze sono considerate soggettive solo perché una terza persona non trova un terreno comune in quello che altri percepiscono come bello. Questo ha davvero poco a che fare con un’esperienza individuale di bellezza, di cui una persona può essere certa. Almeno nei confronti della bellezza biologica questa certezza può anche essere estesa, come sosteneva Kant, ad altri individui. Quando qualcuno considera un viso bello, è normale presumere che anche altri lo considerino tale, e quindi l’esperienza ha una validità universale, a causa di quel che Kant chiamava sensus communis.
E in effetti, per essere considerati belli, i volti devono obbedire a certe leggi di proporzione e simmetria che il cervello ha ereditato e che sono indipendenti dalla cultura e dall’apprendimento — una lezione che Francis Bacon conosceva bene quando affermava che lo scopo del suo lavoro era provocare «uno choc visivo»: lo otteneva deformando e mutilando l’idea ereditata dal cervello dell’aspetto che un volto deve avere. Nel perseguire la bellezza di un viso o di un corpo non si possono sfidare i concetti ereditati dal cervello delle relazioni tra le sue parti: queste hanno una grande precisione matematica, come sapevano bene gli antichi scultori greci e Leonardo da Vinci.
Lo studio della bellezza è quindi piuttosto oggettivo, e con ciò non si vuol dire che in essa non vi sia anche un elemento soggettivo. Esso è più evidente in ciò che potremmo chiamare bellezza artefatta, cioè la bellezza di oggetti creati dall’uomo, come case, macchine e utensili. Questa nuova categorizzazione della bellezza biologica e artefatta è quella di cui si occupa la neuroestetica. Essa porta a concludere che l’elemento oggettivo è molto più forte, e la variazione è corrispondentemente minore, nell’esperienza della bellezza biologica piuttosto che in quella artefatta, che dipende maggiormente dalla cultura e dall’apprendimento. È una classificazione che dovrebbe essere incorporata nelle teorie estetiche. ( traduzione di Maria Sepa)