Corriere della Sera - La Lettura
Noir, sostantivo femminile
Preceduto dall’uscita nelle sale cinematografiche di «Assassinio sull’Orient Express» di e con Kenneth Branagh, il Noir in Festival (Milano-Como, 4-10 dicembre) esplora la creatività delle gialliste. A partire da Agatha Christie. E fino a Margaret Atwood,
Jane Marple e Hercule Poirot non si sono mai potuti vedere. Per volontà della loro autrice, la soave e dispettosa Agatha Christie, non sono mai stati presentati al consanguineo letterario («C’è gente che continua a scrivermi, proponendomi di farli incontrare. E perché poi?», si domanda con perfida ingenuità la signora postvittoriana nell’autobiografia) ma se anche un contegnoso saluto fosse mai stato scambiato, i due avrebbero avuto ben poco da dirsi, e in ogni caso non si sarebbero piaciuti. Figuriamoci se un tipo egocentrico, magniloquente e giramondo come l’ex poliziotto belga può farsi dare lezioni da un’anziana zitella («Inacidita, piena di curiosità, a cui non sfugge niente, una specie di servizio investigativo domestico»: è sempre Dame Agatha) sepolta nell’immaginario paesino di St. Mary Mead, i cui confini valica soltanto un paio di volte in vita sua.
Quando nel 1930 dà alle stampe La morte nel villaggio, il primo romanzo con l’inconsueta figura di Miss Marple, già apparsa in una serie di sei storie uscite sul «Royal Magazine» dal dicembre 1927, la scrittrice non immagina che questa figurina tanto fragile all’apparenza quanto spietata, quintessenza dell’inglesità di campagna, dedita al culto del lavoro a maglia e del tè in pettegola compagnia delle amiche, le sarebbe rimasta appiccicata per tutta la vita, non meno — al polo opposto — di Poirot, spregiatore dell’introversa vita agreste e cultore delle simmetrie cittadine. La scaltra e intuitiva Jane non è la prima investigatrice in assoluto. Vent’anni prima, mentre alle donne era preclusa la carriera legale, la baronessa britannica di origine ungherese Emma Orczy aveva pubblicato i racconti di Lady Molly di Scotland Yard, detective vivace e affascinante, assistita da una devota cameriera-biografa all’altezza del dottor Watson. Ancora più indietro, nel 1878, con il romanzo d’esordio Il caso Leavenworth, l’americana Anna Katherine Green consegnava ai lettori le pagine che l’avrebbero resa «madre del poliziesco», ponendola a braccetto del «padre» nobile, il compatriota (più anziano di una quarantina d’anni) Edgar Allan Poe. Ed era stata la stessa Green a dare alla luce le prime, strutturate, detective amatoriali: Amelia Butterworth, nel 1897, zitella di mezza età che affianca, surclassandolo, l’insopportabile ispettore Ebenezer Gryce, e la giovane Violet Strange, nel 1900. Ma il declino di queste pioniere, rimaste senza adeguate cure editoriali (e alle quali viene da pensare proprio ora che tra Milano e Como, dal 4 al 10 dicembre, nell’ambito del «Noir in Festival», s’indaga sulla creatività delle gialliste), assegna a Miss Marple, assurta invece al rango di immortale, un ruolo e una responsabilità fuori discussione.
Del resto c’è qualcuno che sappia, da noi, chi sia Nina Palma? Nel 1909, 11 anni prima che la Christie pubblichi il suo primo libro ( Poirot a Styles Court, 1920), e in anticipo di un ventennio sulla nascita della Marple, Carolina Invernizio dà alle stampe Nina la poliziotta dilettante, portando all’apogeo il tema della donna-detective abbozzato nell’ultimo decennio dell’Ottocento in romanzi come I ladri dell’onore e La sepolta viva. Dopo il brutale assassinio del promesso sposo, la bella Nina, operaia torinese, decide di dedicarsi anima e corpo alla ricerca del colpevole (una donna...). Mentre i poliziotti di professione vanno a tentoni nel buio o seguono false piste (lo schema Conan Doyle si è già cristallizzato in canone), la detective-per-amore porta al traguardo l’inchiesta con le sue eccezionali doti di intuito, coraggio e determinazione, e anche — assecondando la moda dell’epoca — con qualche travestimento sempliciotto. Regina del feuilleton (o «onesta gallina della letteratura popolare»: Antonio Gramsci), la Invernizio è una delle prime scrittrici in assoluto — cioè: anche fuori dei confini nazionali — a esplorare con esiti originali lo schema della detective story. Attenuando «agnizioni, fughe rocambolesche, morti apparenti, e più in generale i motivi sanguinari e terrificanti — osserva la filologa Rita Fresu in L’infinito pulviscolo (Franco Angeli), saggio sulla (para) letteratura femminile otto-novecentesca — per dare spazio a elementi costitutivi del racconto investigativo (centralità del delitto, rappresentazione degli ambienti giudiziari, imprevedibilità della vicenda, sospettabilità di qualsiasi personaggio, sottomissione della struttura narrativa alla detection) ». Non è poco. Anche se, per il resto, la scrittrice di Voghera rimane fedele, più che a se stessa, alla linea (universalmente condivisa, allora, dai promotori del genere, sia pure con diverse sfumature di fede) della ricomposizione dell’ordine sociale con il lieto fine, consistente nella soluzione dell’enigma e nella punizione, incontrovertibilmente giusta, del colpevole. Missione a cui Carolina si dedica con una tensione tutta sua, da moralista piccolo-borghese, votata alla salvaguardia dell’onore della vittima e dell’unità della famiglia.
Eppure anche la Invernizio antesignana della crime fiction scompare nell’ombra dell’intramontabile autrice di Assassinio sull’Orient Express (la cui più recente trasposizione, con la regia e la partecipazione di Kenneth Branagh, è appena arrivata nei cinema). Nulla di grave, intendiamoci: Dame Agatha regna ancora in piena luce, se non altro in ragione del persistente appagamento dei lettori, e nonostante i suoi (presunti) inganni. Quello che conta è dirsi una volta per tutte che associare il poliziesco alla più esacerbata mascolinità è un pregiudizio.
Già agli albori del genere si fanno notare diverse audaci gialliste, coetanee della Christie (e da questa, campionessa anche di longevità anagrafica, quasi tutte portate alla tomba): le inglesi Doroty Sayers (che mette all’opera il dilettante aristocratico Peter Wimsey) e Margery Allingham (creatrice, scintillante di ironia, del misterioso Albert Campion, di cui Bollati Boringhieri sta pubblicando la saga), la scozzese Josephine Tey (con il detective Alan Grant e la sua giovane, coraggiosa, sfacciata assistente Erica Burgoyne, personaggio che nelle mani di Alfred Hitchcock diventerà la protagonista di Giovane e innocente, un film del ’37), la neozelandese Ngaio Marsh (con il suo Roderick Alleyn, gentleman poliziotto formatosi a Oxford e al centro di 32 romanzi)… Donne che rifiutano la parte assegnata alle colleghe della precedente generazione nella commedia della letteratura popolare, quella del sentimentalismo rosa confetto, e contendono agli uomini il diritto all’azione, anche alla brutalità nel caso. In sintonia con i mutamenti sociali, che agevolano l’evasione letteraria e creano le condizioni della nascita di un vasto «pubblico» femminile, più che di sovvertire i canoni esse si preoccupano di aggiungere tonalità inedite, un’inconsueta finezza psicologica nella pittura dei caratteri e delle situazioni drammatiche. Sottovalutate, può darsi, ma tutt’altro che superficiali o timide le gialliste della prima ora. È anche grazie al loro contributo se il noir si rende fin dal principio disponibile come campo d’osservazione privilegiato della società e delle sue strutture, dei rapporti di forza che la in-
nervano, delle pulsioni individuali e collettive che agiscono sotto la superficie. Con un riferimento esplicito — e in questo senso eversivo — alla condizione della donna.
Il noir è sempre più femminile. Cioè: scritto e interpretato da donne. Basti pensare, nel nostro Paese, alla torinese Rosa Mogliasso (con l’algido commissario Barbara Gillo); alla ligure Cristina Rava (con il medico legale Ardelia Spinola, «disposta a tutto per trovare la verità»); alla milanese Alice Basso (la sua ghostwriter Vani, vestita di nero, ha il dono maigrettiano dell’empatia); all’orvietana Alessandra Carnevali (con la commissaria Adalgisa Calligaris, donna «urticante, ma salutare come l’ortica»).
Qualche passo in più nel disagio, oltreconfine, ed ecco spuntare la bionda svedese Annika Bengtzon, protagonista degli abrasivi romanzi di Liza Marklund, una delle star del «thriller nordico». La reporter investigativa Annika sconta con attacchi di panico una vita messa sotto scacco da troppi conflitti. C’è la critica al sistema politico ed economico, certo, ma, a conferma dell’urgente vocazione sociale del giallo (non soltanto scandinavo), in primo piano c’è una donna con i suoi problemi di moglie/ex moglie, madre, lavoratrice... Basta come esempio?