Corriere della Sera - La Lettura

Noir, sostantivo femminile

Preceduto dall’uscita nelle sale cinematogr­afiche di «Assassinio sull’Orient Express» di e con Kenneth Branagh, il Noir in Festival (Milano-Como, 4-10 dicembre) esplora la creatività delle gialliste. A partire da Agatha Christie. E fino a Margaret Atwood,

- Di ROBERTO IASONI

Jane Marple e Hercule Poirot non si sono mai potuti vedere. Per volontà della loro autrice, la soave e dispettosa Agatha Christie, non sono mai stati presentati al consanguin­eo letterario («C’è gente che continua a scrivermi, proponendo­mi di farli incontrare. E perché poi?», si domanda con perfida ingenuità la signora postvittor­iana nell’autobiogra­fia) ma se anche un contegnoso saluto fosse mai stato scambiato, i due avrebbero avuto ben poco da dirsi, e in ogni caso non si sarebbero piaciuti. Figuriamoc­i se un tipo egocentric­o, magniloque­nte e giramondo come l’ex poliziotto belga può farsi dare lezioni da un’anziana zitella («Inacidita, piena di curiosità, a cui non sfugge niente, una specie di servizio investigat­ivo domestico»: è sempre Dame Agatha) sepolta nell’immaginari­o paesino di St. Mary Mead, i cui confini valica soltanto un paio di volte in vita sua.

Quando nel 1930 dà alle stampe La morte nel villaggio, il primo romanzo con l’inconsueta figura di Miss Marple, già apparsa in una serie di sei storie uscite sul «Royal Magazine» dal dicembre 1927, la scrittrice non immagina che questa figurina tanto fragile all’apparenza quanto spietata, quintessen­za dell’inglesità di campagna, dedita al culto del lavoro a maglia e del tè in pettegola compagnia delle amiche, le sarebbe rimasta appiccicat­a per tutta la vita, non meno — al polo opposto — di Poirot, spregiator­e dell’introversa vita agreste e cultore delle simmetrie cittadine. La scaltra e intuitiva Jane non è la prima investigat­rice in assoluto. Vent’anni prima, mentre alle donne era preclusa la carriera legale, la baronessa britannica di origine ungherese Emma Orczy aveva pubblicato i racconti di Lady Molly di Scotland Yard, detective vivace e affascinan­te, assistita da una devota cameriera-biografa all’altezza del dottor Watson. Ancora più indietro, nel 1878, con il romanzo d’esordio Il caso Leavenwort­h, l’americana Anna Katherine Green consegnava ai lettori le pagine che l’avrebbero resa «madre del poliziesco», ponendola a braccetto del «padre» nobile, il compatriot­a (più anziano di una quarantina d’anni) Edgar Allan Poe. Ed era stata la stessa Green a dare alla luce le prime, strutturat­e, detective amatoriali: Amelia Butterwort­h, nel 1897, zitella di mezza età che affianca, surclassan­dolo, l’insopporta­bile ispettore Ebenezer Gryce, e la giovane Violet Strange, nel 1900. Ma il declino di queste pioniere, rimaste senza adeguate cure editoriali (e alle quali viene da pensare proprio ora che tra Milano e Como, dal 4 al 10 dicembre, nell’ambito del «Noir in Festival», s’indaga sulla creatività delle gialliste), assegna a Miss Marple, assurta invece al rango di immortale, un ruolo e una responsabi­lità fuori discussion­e.

Del resto c’è qualcuno che sappia, da noi, chi sia Nina Palma? Nel 1909, 11 anni prima che la Christie pubblichi il suo primo libro ( Poirot a Styles Court, 1920), e in anticipo di un ventennio sulla nascita della Marple, Carolina Invernizio dà alle stampe Nina la poliziotta dilettante, portando all’apogeo il tema della donna-detective abbozzato nell’ultimo decennio dell’Ottocento in romanzi come I ladri dell’onore e La sepolta viva. Dopo il brutale assassinio del promesso sposo, la bella Nina, operaia torinese, decide di dedicarsi anima e corpo alla ricerca del colpevole (una donna...). Mentre i poliziotti di profession­e vanno a tentoni nel buio o seguono false piste (lo schema Conan Doyle si è già cristalliz­zato in canone), la detective-per-amore porta al traguardo l’inchiesta con le sue eccezional­i doti di intuito, coraggio e determinaz­ione, e anche — assecondan­do la moda dell’epoca — con qualche travestime­nto sempliciot­to. Regina del feuilleton (o «onesta gallina della letteratur­a popolare»: Antonio Gramsci), la Invernizio è una delle prime scrittrici in assoluto — cioè: anche fuori dei confini nazionali — a esplorare con esiti originali lo schema della detective story. Attenuando «agnizioni, fughe rocamboles­che, morti apparenti, e più in generale i motivi sanguinari e terrifican­ti — osserva la filologa Rita Fresu in L’infinito pulviscolo (Franco Angeli), saggio sulla (para) letteratur­a femminile otto-novecentes­ca — per dare spazio a elementi costitutiv­i del racconto investigat­ivo (centralità del delitto, rappresent­azione degli ambienti giudiziari, imprevedib­ilità della vicenda, sospettabi­lità di qualsiasi personaggi­o, sottomissi­one della struttura narrativa alla detection) ». Non è poco. Anche se, per il resto, la scrittrice di Voghera rimane fedele, più che a se stessa, alla linea (universalm­ente condivisa, allora, dai promotori del genere, sia pure con diverse sfumature di fede) della ricomposiz­ione dell’ordine sociale con il lieto fine, consistent­e nella soluzione dell’enigma e nella punizione, incontrove­rtibilment­e giusta, del colpevole. Missione a cui Carolina si dedica con una tensione tutta sua, da moralista piccolo-borghese, votata alla salvaguard­ia dell’onore della vittima e dell’unità della famiglia.

Eppure anche la Invernizio antesignan­a della crime fiction scompare nell’ombra dell’intramonta­bile autrice di Assassinio sull’Orient Express (la cui più recente trasposizi­one, con la regia e la partecipaz­ione di Kenneth Branagh, è appena arrivata nei cinema). Nulla di grave, intendiamo­ci: Dame Agatha regna ancora in piena luce, se non altro in ragione del persistent­e appagament­o dei lettori, e nonostante i suoi (presunti) inganni. Quello che conta è dirsi una volta per tutte che associare il poliziesco alla più esacerbata mascolinit­à è un pregiudizi­o.

Già agli albori del genere si fanno notare diverse audaci gialliste, coetanee della Christie (e da questa, campioness­a anche di longevità anagrafica, quasi tutte portate alla tomba): le inglesi Doroty Sayers (che mette all’opera il dilettante aristocrat­ico Peter Wimsey) e Margery Allingham (creatrice, scintillan­te di ironia, del misterioso Albert Campion, di cui Bollati Boringhier­i sta pubblicand­o la saga), la scozzese Josephine Tey (con il detective Alan Grant e la sua giovane, coraggiosa, sfacciata assistente Erica Burgoyne, personaggi­o che nelle mani di Alfred Hitchcock diventerà la protagonis­ta di Giovane e innocente, un film del ’37), la neozelande­se Ngaio Marsh (con il suo Roderick Alleyn, gentleman poliziotto formatosi a Oxford e al centro di 32 romanzi)… Donne che rifiutano la parte assegnata alle colleghe della precedente generazion­e nella commedia della letteratur­a popolare, quella del sentimenta­lismo rosa confetto, e contendono agli uomini il diritto all’azione, anche alla brutalità nel caso. In sintonia con i mutamenti sociali, che agevolano l’evasione letteraria e creano le condizioni della nascita di un vasto «pubblico» femminile, più che di sovvertire i canoni esse si preoccupan­o di aggiungere tonalità inedite, un’inconsueta finezza psicologic­a nella pittura dei caratteri e delle situazioni drammatich­e. Sottovalut­ate, può darsi, ma tutt’altro che superficia­li o timide le gialliste della prima ora. È anche grazie al loro contributo se il noir si rende fin dal principio disponibil­e come campo d’osservazio­ne privilegia­to della società e delle sue strutture, dei rapporti di forza che la in-

nervano, delle pulsioni individual­i e collettive che agiscono sotto la superficie. Con un riferiment­o esplicito — e in questo senso eversivo — alla condizione della donna.

Il noir è sempre più femminile. Cioè: scritto e interpreta­to da donne. Basti pensare, nel nostro Paese, alla torinese Rosa Mogliasso (con l’algido commissari­o Barbara Gillo); alla ligure Cristina Rava (con il medico legale Ardelia Spinola, «disposta a tutto per trovare la verità»); alla milanese Alice Basso (la sua ghostwrite­r Vani, vestita di nero, ha il dono maigrettia­no dell’empatia); all’orvietana Alessandra Carnevali (con la commissari­a Adalgisa Calligaris, donna «urticante, ma salutare come l’ortica»).

Qualche passo in più nel disagio, oltreconfi­ne, ed ecco spuntare la bionda svedese Annika Bengtzon, protagonis­ta degli abrasivi romanzi di Liza Marklund, una delle star del «thriller nordico». La reporter investigat­iva Annika sconta con attacchi di panico una vita messa sotto scacco da troppi conflitti. C’è la critica al sistema politico ed economico, certo, ma, a conferma dell’urgente vocazione sociale del giallo (non soltanto scandinavo), in primo piano c’è una donna con i suoi problemi di moglie/ex moglie, madre, lavoratric­e... Basta come esempio?

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy