Corriere della Sera - La Lettura
I riti e la legge del maiale sovrano nella patria del cuore
Roberta Dapunt scrive in ladino e si traduce in italiano, perché per un autore «il primo comandamento è testimoniare il luogo d’origine». Così nascono i versi dedicati a un animale che la lirica ha sempre trascurato (tranne Saba, che però poi si pentì)
Se l’uccello è da sempre l’animale favorito dei poeti, come una specie di loro alter ego, il maiale è probabilmente il più negletto. Il primo canta (come il poeta, appunto), il secondo grugnisce; l’uno si stacca da terra per volare libero nel cielo, l’altro non riusciamo a immaginarlo che invischiato nella più greve e sudicia materia terrestre. Tra i pochissimi, Umberto Saba gli intitolò nel 1912 una poesia, Il
maiale, che finì però per escludere dal suo Canzoniere, per motivi che lo stesso poeta triestino non seppe poi riconoscere con chiarezza. Sembra davvero un piccolo oroscopo. Entrato in modo quasi illegittimo nella nostra poesia del Novecento, il povero maiale ne è stato senza meno estromesso. Eppure in quella lirica c’erano alcuni endecasillabi tutt’altro che trascurabili, manifesti e un poco patetici, animati da una fraternità creaturale davvero molto sabiana: «Ma io, se riguardando in lui mi metto,/ io sento nelle sue carni il coltello,/ sento quell’urlo, quella spaventosa/ querela».
Non è senza significato, allora, che proprio al maiale e al suo triste destino Roberta Dapunt abbia voluto dedicare un suo piccolo libro di versi, Nauz (uscito per Il Ponte del Sale), che oltre alle poesie comprende una serie d’immagini fotografiche opera dell’autrice stessa. Non so se sia giusto ricondurre l’eccezionalità, meglio ancora l’eccentricità della sua scelta a ragioni biografiche e culturali. Certo è che per questa poetessa la lingua e la tradizione poetica italiane sono in qualche misura acquisite. Chi ha familiarità con la sua poesia (due raccolte sono state pubblicate da Einaudi nel 2008 e nel 2013), conosce certamente questi aspetti. Dapunt è nata in Val Badia, in una comunità ladina dell’Alto Adige. Ed è qui che vive, in un maso di montagna per la cui conduzione si adopera: «Un maiale e tre vacche, la corta prospettiva sul mondo». Dunque non si tratta soltanto di un retaggio ma di una scelta di vita. Come spiega in un intervento tra biografia e poetica posto in calce al volume, la sua situazione linguistica è quella di un versatile trilinguismo: anzitutto il ladino, che costituisce la sua lingua madre, quindi l’italiano, ma anche uno dei vari dialetti tedeschi dell’Alto Adige.
Nauz, che è un libro legato alla terra, alle radici, al luogo come lingua e alla lingua come luogo, è stato scritto non a caso in ladino, e presenta la versione italiana d’autore a fianco del testo originario (allo stesso modo un’edizione ladino-tedesca era uscita nel 2012). «Nella scrittura — sostiene infatti la Dapunt — il primo comandamento è testimoniare il luogo d’origine».
Attraverso la figura del maiale, la sua uccisione, le operazioni per la conservazione delle carni, la cosiddetta maialatura (molti ricorderanno una scena del film Novecento di Bernardo Bertolucci), Dapunt si è rifatta a uno dei rituali più tellurici, più arcaici e inevitabili della civiltà contadina. Un momento in cui necessità della vita, violenza, legge, sacrificio, formano una specie di groppo unico esposto impietosamente alla luce fredda del- l’inverno. Questi versi, del resto, insistono molto sul dovuto riconoscimento della sacertà del rapporto con la natura e più generalmente col mondo creato, talora con un riferimento religioso basico, assolutamente non confessionale. Di qui quel sentimento di obbligazione, di vincolo verso la vita che deve assolutamente essere onorato, in cui va riconosciuto il tratto distintivo sia esistenziale sia poetico di Dapunt.
I suoi versi sono concreti, fisici, un po’ rudi, nella versione italiana anche con qualche giuntura un poco dissonante, forse addirittura imprevista. In ogni caso, il senso complessivo che ne deriva è quello sì di una rivendicazione della legittimità della proprie scelte e della propria situazione d’esistenza, tuttavia senza alcuna euforia o volontà celebrativa, bensì come una nece s s a r i a , a ppena un poco gloriosa espiazione: «Vieni maiale, vienimi incontro./ Consento il tuo entrare in quest’alba, nel sole che sorge a morire./ E tu guardi sereno per terra, non è tempo di fioritura./ Se nulla più, la neve accoglie il tuo sangue,/ petali i tuoi innanzi al Natale». Ciò che in queste poesie scorre di più ancestrale, di più legato all’uomo nel suo rapporto primario col mondo, si trova nella volontà di rispettare un tale vincolo, di riconsegnare ogni volta il sacrificio della vita al recinto del sacro.
In Nauz, che in ladino significa trogolo, mangiatoia, si parla non a caso di lavori fatti con cura e perizia, di tecniche e pratiche del lavoro che equivalgono ad autentici riti. S’incontrano più volte parole come «dovere», «onore», «disciplina». Sembra davvero che il primo modo di assolvere il debito nei confronti della realtà e di onorare, come viene definita, la «totalità dell’esperienza dell’essere umano», sia fare le cose con attenzione e con giustezza, con maestria. «Umiltà» e «solennità», come se in qualche modo fosse sempre domenica: «E lì dietro la tua solitudine, io lo so,/ porti il vestito a festa e profumi di buono».
Perché sia persuasiva e condivisibile, una poesia che attinge la propria energia da un luogo determinato deve sondarne i visceri, i tratti più peculiari e idiosincratici, ma al contempo deve riuscire a violarne i confini, deve comprendere che il recinto va tenuto aperto. È ciò che accade in queste poesie. Lo si dichiara anche esplicitamente, sia riguardo al destino personale sia riguardo alla comunità: «Gente ladina, così piccolo il nome/ volgi gli occhi e guarda lontano,/ gregge minore anche noi in affittanza sul mondo»; o ancora, nella poesia conclusiva: «Qui al margine della stalla, tu sei fenditura vitale/ tra dedizione al piccolo e visione del mondo». Le radici ma anche lo sradicamento, dunque. Dapunt ha contratto un obbligo verso il suo luogo e la sua lingua particolari, solo perché lo ha contratto verso la vita e la lingua in quanto tali.