Corriere della Sera - La Lettura
Il night club è un’opera d’arte (ma resta aperto solo tre notti)
Carsten Höller, di casa anche a Milano, ha progettato in occasione di Miami Art Basel il «Prada Double club Miami». È un locale, monocromo all’interno e coloratissimo fuori, «dove protagonista è il pubblico»
The Prada Double club Miami sarà un night club realizzato come un’opera d’arte. Starà aperto soltanto tre notti, dal 5 al 7 dicembre durante Miami Art Basel (attese 250 gallerie e circa 70 mila visitatori). Poi sulla 59 NW 14th Street di Miami Downtown si sbaracca tutto e buonanotte. A progettarlo, per conto della Fondazione Prada, è Carsten Höller, artista cosmopolita che ha fatto del coinvolgimento con il pubblico la ragione estetica del suo lavoro.
Nato a Bruxelles nel 1961 vive un po’ a Stoccolma e un po’ a Biriwa, in Ghana. L’ossessione per l’interazione con il pubblico — quello che per il nostro Jannacci era «vedere di nascosto l’effetto che fa» — lo ha accompagnato dagli esordi con Maurizio Cattelan sino alla realizzazione dell’ufficio milanese di Miuccia Prada (2000) con proposte difficili da dimenticare: Soma all’Hamburger Bahnhof presentava cervi in libertà e un grande letto sul quale i visitatori potevano passare la notte; Synchro System per la Fondazione Prada aveva gigantesche amanite falloidi per generare «stimoli psicofisici» mentre Doubt, l’anno scorso al Pirelli HangarBicocca di Milano, era un grandioso luna park esistenzialista.
A dire il vero, Höller sostiene che non gli interessa tanto osservare il pubblico quanto che «il pubblico osservi se stesso». La sua esperienza artistica si concentra comunque sulla creazione di forme o spazi alterati di esistenza dove diventa fondamentale l’interazione tra opera e individuo. La sua intenzione è quella di rendere l’osservatore «consapevole della trasformazione in atto nel momento in cui si entra in contatto con l’opera d’arte», dice.
Non è la prima volta che Höller si cimenta con la creazione di sperimentali location per il pubblico dei vernissage: nel 2008 realizzò The Revolving Hotel Room, una camera d’albergo per due al Guggenheim Museum di New York, e The Double Club a Londra, per Prada. Quest’ultimo era un ristorante-dance club realizzato in un magazzino d’epoca vittoriana dove musica contemporanea, lifestyle, arti e design congolesi e occidentali si fondevano. Anzi Höller divise lì ogni spazio in parti uguali, occidentale e congolese, sia a livello decorativo sia funzionale, creando una prospettiva di «doppia identità».
Ma a Miami si cambia. « The Prada Double Club Miami — racconta l’artista a “la Lettura” — ha connessioni con il locale di Londra, però è diverso nei contenuti. Quello di Londra era un locale isolato su se stesso, una sorta di museo. La sua motivazione era fare esperienza dell’isolamento creato dall’arte. Quello di Miami, dal momento che c’è qui uno spirito diverso, è realizzato per stare insieme e divertirsi: è per fare una sorta di show con il pubblico dei visitatori di Art Basel, uno stage dove il protagonista è il pubblico. Qui si vuole fare un’opera non finita, non popolata e dove l’artista non appaia. Il protagonista è solo il pubblico. Grazie alla presenza del pubblico l’opera sarà finita».
Divertirsi è la password per gli stranieri che sbarcano dalle parti di Ocean Drive. Ma lo era già stata, in parte, anche a Milano per la rassegna Doubt a proposito della quale Höller aveva affermato: «Cerco di creare un intrattenimento piacevole, che nell’arte contemporanea è un vero tabù. Nonostante i musei o gli spazi pubblici per l’arte cerchino il pubblico e si pieghino alla necessità di intrattenere, ammetterlo resta un tabù. Oggi i luna park sono vuoti. E i musei cercano di diventare luna park».
«The Double Club» di Londra era diviso in parti uguali, Occidente e Africa: come sarà il «Double club» di Miami?
«Qui a Miami la differenza è molto più leggera. Qui cerchiamo una differenza sui colori. Dentro, lo spazio sarà totalmente monocromo e l’unica traccia saranno il bianco e nero alle pareti. All’esterno tutto al contrario: tutto colorato, tra le palme e piante tropicali».
Perché tanta differenza tra un interno monocromatico e un esterno a «vividi colori»?
«All’interno è uno spazio vuoto, senza mobili, fuori è un giardino tropicale. All’interno ci si trova come su un set di un film degli anni Venti, o in un clima un po’ alla Francis Ford Coppola. Mi sono ispirato al suo film del 1983 intitolato Rusty il
selvaggio, un film in bianco e nero dove di colorato ci sono solo i pesci combattenti, che sono una metafora, proprio perché sono l’unica cosa colorata. Voglio che gli
ospiti del Double Club Miami siano gli unici elementi di colore nell’interno. Come se fossero loro gli elementi di disturbo dell’opera, del black and white. Passare dal dentro al fuori sarà un viaggio schizofrenico, bipolare. Qui non c ’è nessuna concessione alla fusion. Questa schizofrenia è la sua bellezza».
Ci saranno solo piante o anche animali veri? Lei ne ha spesso coinvolti nelle opere… «No nessun animale, solo colori».
E i funghi? Non ci saranno i suoi giganteschi funghi?
«Qui niente funghi. Li uso quando ho bisogno di fare dell’arte isolata in se stessa e vedere le reazioni dei visitatori; qui non c’è esperienza dell’isolamento nell’arte, ma coinvolgimento diretto».
L’opera d’arte sta anche questa volta nel coinvolgimento: dentro a ballare, fuori a bere drink distribuiti da un Garden stage costruito in bambù. Diciamo che, se un tempo, architetti e artisti venivano chiamati dalla nobiltà a realizzare archi di trionfo, vulcani pirotecnici e tempietti effimeri in occasione di cerimonie e compleanni oggi i committenti sono le maison di moda e gli artisti realizzano effimere location per l’effimero svago. L’importante è che siano coinvolgenti. Höller, perché ha sempre bisogno del coinvolgimento del visitatore?
«Non penso mai a un artista in bottega che finisce l’opera e la presenta ai collezionisti, penso solo a spazi pubblici dove ciascuno può sperimentare se stesso con quello che fa. La mia proposta artistica è sperimentare, ed essere nel mondo reale. A marzo, a Palazzo Strozzi di Firenze, farò un’installazione con Stefano Mancuso chiamata Planet union experiment per esplorare l’arte nel tempo».
Mancuso è uno scienziato che dirige il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale: perché spesso il coinvolgimento della scienza nelle sue opere? Che relazione c’è tra le regole della scienza e la soggettività dell’arte?
«Un po’ lo devo ai miei studi, ma scienza e arte sono cose diverse, come differenti sono i campi della politica, religione ed economia. L’artista parla delle connessioni, l’artista dà una seconda vita alle cose; ma quando faccio l’artista non sono uno scienziato».
Arte e scienza si fondono nella pratica di Carsten Höller così come nella neuroestetica, la disciplina che analizza le reazioni degli individui di fronte a opere d’arte o a fenomeni esterni. Il primo a studiare questi rapporti tra stimoli esterni e reazioni nell’individuo fu il fondatore della Psicofisica, Gustav Fechner (1801-1887); in seguito l’estetologo Robert Vischer (18471933) introdusse il termine Einfuhlung per indicare il rapporto empatico ed emozionale che si genera tra autore, opera e fruitore. Höller e la neuroestetica sono un po’ gli eredi di questa idea di arte come generatore di emozioni che si possono anche studiare o prevedere.
Höller, lei sostiene che la sua opera è sempre non finita e a finirla è il pubblico: insomma, si rifà a Michelangelo? «Ovviamente mi piace: come potrebbe un artista non amare Michelangelo!».
Che suggerimenti si sente di dare ai giovani artisti?
«Devono studiare, ma solo se hanno una forte personalità. Altrimenti non è detto che sia la strada giusta. Sarebbe più opportuno cercare l’eccellenza in altri campi e poi arrivare all’arte. Diventare un artista è trovare se stessi: ma prima uno deve trovare se stesso, poi darsi all’arte».