Corriere della Sera - La Lettura
Se vuoi sognare forte forte compra una chitarra (rock)
Strumento ingannevole: sembra facile da domare, e non lo è. Strumento traditore: ti fa credere di poterti affermare, e invece rischia di renderti ridicolo. Chi lo vende, poi, è in genere il più scorbutico dei negozianti. Eppure le Stratocaster, le Rickenbacker e le loro sorelle hanno prodotto musica sublime e autentiche leggende. Morale: maneggiare con cautela
Nella prefazione a La storia della chitarra rock (Hoepli) Steve Vai ricorda così il giorno della sua chiamata. «Il primo chitarrista che mi ha davvero colpito l’ho incontrato quando avevo sei anni. Lui ne aveva nove. Ma quando sei così piccolo, qualcuno di nove anni che suona la chitarra è come un dio. Quando ho visto questo ragazzino con addosso quell’enigmatico strumento, mentre colpiva le co rde s uonando l a ca nzone Twinkl e Twinkle Little Star, sono rimasto di sasso. È stato come se la vita cominciasse proprio in quell’istante».
Nelle 300 pagine successive, Francesco Savarese e Mario Giovannini descrivono gli strumenti di quello stupore. Un percorso storico — dai primi modelli di Adolph Rickenbacker, svizzero di Los Angeles, alla Music Man a sette corde di John Petrucci — pieno di notizie e dettagli tecnici che restituiscono la grandezza e l’unicità della chitarra.
Per cento musicisti che sono riusciti a domare lo strumento, ce ne sono cento milioni che hanno passato anni tentando di farselo davvero amico. Non è facile, a dispetto delle apparenze. Dopo i primi incoraggianti accordi, c’è da capire se La canzone del sole può bastare o se è necessario — questione di trovare il proprio posto nel mondo — provare a fare sul serio. La chitarra, già l’acustica ma ancora di più quella elettrica, è una promessa di affermazione di sé, libertà, espressione personale, felicità, magari successo. Nessun altro strumento ha un potere evocativo così alto, nessun altro oggetto viene caricato di così tanto significato.
Si sfoglia La storia della chitarra rock e di nuovo niente è più importante della lametta da barba con la quale Dave Davies tagliò il cono del piccolo amplificatore Elpico, collegato al Vox AC30, per trovare il fantastico suono distorto di You Really Got Me. Si volta pagina, e ci sono gli amplificatori Marshall che Pete Townshend amava distruggere a colpi di Stratocaster, o Gibson SG, o Rickenbacker 360. Un’epopea che si è sempre costruita più sul potere di certi gesti e di certe leggende che sul virtuosismo tecnico, peraltro in molti casi straordinario.
Suonare la chitarra è anche una questione di attitude, di atteggiamento, come viene giustamente ricordato nel libro. Ecco perché tutto quel che la circonda può essere così coinvolgente, e complicato.
Una racchetta da tennis appoggiata al muro, e a nessun parente in visita natalizia verrà in mente di dire: «Su, campione, vediamo cosa sai fare». La chitarra in casa invece va nascosta, perché è sempre in agguato l’affabile richiesta: «Dai, suonaci qualcosa». Qualcosa, certo, come no, magari uno stornello. Come se una canzone ne valesse un’altra, come se il rock fosse una cosa da buontemponi.
Non lo è, e lo sanno bene quelli che le chitarre le vendono, i negozianti. Non c’è categoria professionale al mondo più scortese dei venditori di chitarre, neppure sfiorati in cattiveria dai commessi dei negozi di dischi, descritti una volta per tutte da Nick Hornby in Alta fedeltà. Bisogna capirli: chi lavora nei negozi di chitarre è esposto, ogni giorno, al desiderio, alla frustrazione, alla velleità, all’ambizione artistica spesso immotivata di clienti costantemente a un passo dal ridicolo.
Un esercito di wannabe Jimmy Page, Eric Clapton, The Edge o più di recente John Frusciante, John Mayer, Jack White, Dan Auerbach o Kurt Cobain, il più antie- roe di tutti, lui che sulla sua Strato di assolo non ne ha mai fatti.
Esiste uno storico grande magazzino che ha trasformato la provincia di Cuneo in un’improbabile terra promessa per generazioni di ventenni dell’Italia centrosettentrionale, che intraprendevano lunghi viaggi della speranza a caccia di una Telecaster d’epoca, con il manico a posto, che tenesse l’accordatura e che costasse moltissimo ma non più di tutti i risparmi. A Parigi rue de Douai e a Londra Denmark street sono le vie dei negozi di strumenti musicali e quindi, soprattutto, di chitarre. Leggenda vuole che ogni tanto appaiano i cartelli No «Smoke On The Water» please, No «Stairway to Heaven» please, No «Seven Nation Army» please, scritti per la clientela da commessi con le orecchie sanguinanti.
La chitarra fa sognare, fa arrabbiare, e fa ridere. Prima di Stand By Me e Harry ti presento Sally, Rob Reiner ha girato un altro capolavoro, This Is Spinal Tap, parodia di un gruppo hard rock. Nella stanza delle chitarre, Nigel mostra il suo ampli Marshall con il numero 11 aggiunto alla manopola del volume (la scala standard si ferma al 10) «per suonare più forte».
Anche la commedia (sentimentale, alla fine) School of Rock di Richard Linklater coglie bene i dolori e le gioie legati all’amore per le sei corde: il protagonista Jack Black, prima della resurrezione finale, è un chitarrista fallito senza saperlo che, al termine di un assolo con tutti i cliché del caso, si lancia sulle sole quattro persone che compongono il pubblico e che si scansano facendolo precipitare al suolo. La chitarra comporta il prendere rischi, esporsi in prima persona, e infatti c’è chi fa un passo indietro e si dedica al basso: cool e decisivo quanto si vuole, ma anche un modo per mandare avanti gli altri.
Oggi la chitarra è passata di moda: se ne vendono meno, i ragazzi preferiscono fare musica con i computer. Qui non si vuole passare per reazionari, come molti appassionati di chitarra rock sanno essere. Però nel libro di Savarese e Giovannini ci sono Johnny Marr che conquista gli anni Ottanta dei synth con una Rickenbacker e Martin Gore che porta gli elettronici Depeche Mode al successo planetario grazie anche a una magnifica Gretsch verde semi-acustica. Quindi forza, maledetta chitarra.