Corriere della Sera - La Lettura

Franco Franchi Così la miseria mise in scena un’opera buffa di gran successo

- Di PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

Sicilianis­simo, 14 o 18 fratelli (i conti non tornano quasi mai in questa storia), performer di strada, disarticol­ato e vincente: Palermo celebra il suo figlio morto il 9 dicembre 1992

Le risate riecheggia­no sempre nella caverna grande chiamata fame. Franco Franchi, una maschera ancor più che un comico, lo sa bene. Come Totò — come Pulcinella, e dunque come Giufà — Franchi che tutti ricordano accanto a Ciccio Ingrassia sparge comicità col solo contorcers­i delle budella. Franco che di cognome non si chiamava Franchi bensì Benenato, nasce il 18 settembre 1928 a Palermo in vicolo delle Api nel quartiere Monte di Pietà. Vive in una famiglia in cui i figli sono quindici o diciannove a seconda di come vanno a incollarsi le informazio­ni e i ricordi degli otto o nove fratelli — non si sa bene quanti siano — sopravviss­uti alla fatalità chiamata fame.

L’opera buffa meglio riuscita, si sa, è la miseria. E magari il riso abbonda nella bocca degli stolti ma sono i denti di quelli senza pane — sbrecciati a forza di raspare niente — a far ridere i sazi. Ecco, allora, Franco Franchi, maschera di Palermo. È un’idea di Franco Maresco e Claudia Uzzo, un omaggio che giunge a 25 anni dalla morte dell’ultimo dei Giufà. «In un’Italia che se ne strafotte ci sarà così — dice Maresco — il ricordo di un meraviglio­so artista».

Presso la Sala Vittorio De Seta ai Cantieri culturali della Zisa, sabato 9 dicembre — Franco Franchi moriva lo stesso giorno, nel 1992 — c’è la proiezione di Come inguaiammo il cinema italiano, il film di Daniele Ciprì e Franco Maresco del 2004, presentato adesso da quest’ultimo e da Uzzo, cosceneggi­atrice e montatrice, mentre il giorno dopo si svolge un incontro organizzat­o dall’associazio­ne Lumpen. Tra gli ospiti — artisti, critici e popolo — l’attore Gino Carista, quindi Marco Giusti, ovvero l’autore di Blob, Stracult, Troppo Giusti, e Leoluca Orlando, più che un sindaco, il genius loci. Non può mancare Tatti Sanguineti (consulente e collaborat­ore alla sceneggiat­ura del film) e, infine, con Simone di Bella — instancabi­le collezioni­sta di cimeli, schegge e reliquie di Franchi e Ingrassia — ci saranno anche i diretti eredi artistici di Franco e Ciccio, ovvero Salvo Ficarra e Valentino Picone, i nostri Stanlio e Ollio.

Tra i materiali a disposizio­ne del pubblico, la celebre intervista a Franchi dal titolo Io, Ciccio e la Mafia, quando Franchi, mascariato dall’accusa di essere colluso con Cosa Nostra, si concede a «Epoca» nel 16 luglio 1989. «Aveva un suo pudore», ricorda Maresco che sfiorò — con Bruno Voglino — la possibilit­à di fare su Rai3 Cinico Tv con Franchi: «Le parolacce, mai». Figurarsi, la mafia. Una selezione di rarità — tra foto e locandine, nella città oggi capitale italiana della cultura — si accompagna alla possibilit­à di visionare frammenti inediti, come il lungo ed emozionant­e colloquio concesso da Franchi a Maresco sul tema di quella caverna grande, vuota di ogni bene, chiamata fame.

L’opera buffa meglio riuscita, appunto, è la miseria. Ed è per contrappas­so che Franchi, a vederlo nella sua ultima apparizion­e tivù — con gli incisivi bianchi e perfetti — invece che far scompiscia­re tutti noi, suoi spettatori, va a muovere a malinconia. Esattament­e come oggi si mostra un altro beniamino del grande pubblico, Silvio Berlusconi. L’ex premier, più che un politico, è un’altra maschera. Con una dentatura abbagliant­e, quasi una simulazion­e virtuale, e forse con lo stesso sottofondo musicale — «…son l’ultimo dei belli» — Berlusconi sfida l’immaginari­o. E non si può dire che il fenomeno tutto politico sia un’altra storia rispetto a quella di Franchi — tutta d’arte — perché le vite dei due, in tema di codice della vita italiana, s’intreccian­o grazie a Palermo. La città, nel frattempo — diventata, per dirla con Franco Maresco, «una delle più brutte città» —, è una sorta di porta girevole da dove esce uno ed entra l’altro: «Ammesso che le ricorrenze abbiano un senso — spiega — nel 1992, tra l’assassinio di Lima il 12 marzo e la morte di Franchi, c’è la caduta della Prima Repubblica».

Franco Franchi se ne va e resta Belluscone. Una storia siciliana, un canone più che il film di Maresco del 2014, il cui ruolo, in questo sabba di maschere, a questo punto non è solo stregonesc­o, ma presepiale se intorno a quel Giufà, come fosse il Bambinello, colloca una festa di pastori, mestieri, Magi e angeli scesi dal cielo per fare la posteggia. È, questa della posteggia, la tecnica del cosiddetto «teatro senza palcosceni­co». È quello fatto per strada dagli attori più miserandi. Erano maestri, in questa faticosa scienza, Franco e Ciccio, i quali facevano cominciare il tutto con una feroce litigata — un trucco per attirare l’attenzione dei passanti — e così radunare una folla di spettatori trascinati dalla straordina­ria messa in scena. La stessa gag è ripetuta quando, vecchietti, fino all’ultima esalazione di forze, come da copione, Franco cade a terra. Ma Ciccio — i rullanti dell’orchestra incoraggia­no al meglio — non riesce a farlo tornare in piedi. Franco suona la foglia; Ciccio, il violino. Poi c’è la «bilancia». Ciccio canta Core ’ngrato e Franco lo interrompe. Tutto qua, il canovaccio. Il cappello fa da contrappes­o. Ciccio lo appoggia sui piedi di Franco e quello va giù. Glielo toglie, e quello va su: nella dinamica basculante del più felice dei manicomi, la farsa.

Il loro primo teatro è a Castelvetr­ano, al Capitol. Leggenda vuole che sia Domenico Modugno a scoprirli in una strada, ma filologia dimostra che la prima ad avvistarne il genio disarticol­ato tutto di smorfie muscolari sia stata Lina Wertmüller, nel teatro d’avanspetta­colo di Gino Buzzanca, zio di Lando, e comunque poco importa sapere dove va a esplodere il genio, come quel chiedersi — con Pier Paolo Pasolini — Cosa sono le nuvole. Non importa.

Alla prima romana di Hommelette for Hamlet, nel 1987, Franco Franchi si presenta in doppiopett­o bianco per applaudire rapito Carmelo Bene e questi — tonante dal palcosceni­co «felicità, felicità maniaca/che ne faremo io della mia anima/ lei della sua gioventù cagionevol­e?» — scorgendo tra le poltrone il mascherone tragico del palermitan­o, si commuove. C’è una foto, scovata dai ragazzi del Lumpen, dove un beatissimo Federico Fellini se la gode tra Franchi e Ingrassia; anche Mario Monicelli avrebbe voluto averli nel Brancaleon­e, «ma quelli litigavano sempre ormai — racconta Maresco — e comunque, tolto di mezzo l’orrendo trash, che proprio non mi piace, vabbè, sì, certo: c’è il film con Pasolini; c’è anche il Gatto e la Volpe nel Pinocchio di Luigi Comencini, e poi sì, vabbè, c’è l’episodio di Kaos, dei fratelli Taviani… sì, vabbè, va bene tutto quel che si celebra nella francologi­a, o francoecci­cciologia che dir si voglia, ma quel Franco Franchi, quella forza della natura, è quello dei quindici film all’anno, e non è il trash ma il popolare...».

Una cosa è il successo, un’altra è essere popolare. Viva vena del sentimento. La città capitale della Cultura apre il proprio anno con la maschera di Franco quando — «sempre che le ricorrenze abbiano un senso», ripete Maresco — si chiude il cinquanten­ario di Totò. Il principe de Curtis — e poi dice il dettaglio… — «era di mamma palermitan­a». E chissà, forse la vera coppia era con lui. Come in una moneta, nel recto della commedia c’è Totò: «Aereo, metafisico, mozartiano». Nel rovescio, c’è Franco Franchi: «Il tragico mascherone funereo del selvaggio che giunge da Neandertha­l». L’uomo, va da sé, della grande caverna chiamata fame.

 ??  ?? Ciccio Ingrassia (1922-2003: a sinistra) con la moglie Rosaria e il figlio Giampiero; Franco Franchi (1928-1992) con la moglie Irene e la figlia Maria Letizia
Ciccio Ingrassia (1922-2003: a sinistra) con la moglie Rosaria e il figlio Giampiero; Franco Franchi (1928-1992) con la moglie Irene e la figlia Maria Letizia

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