Corriere della Sera - La Lettura
Due congiure. E la storia cambiò
Il complotto dei Pazzi contro i Medici, a Firenze, sancì il ruolo di Lorenzo il Magnifico come protagonista della vita italiana. Quello dei Fieschi contro i Doria, a Genova, ebbe riflessi globali sul duello tra Francia e Spagna
Le congiure sono tra i Leitmotiv del Rinascimento. A raccontarle, appaiono torbide e avvincenti come House of Cards. Sanguinarie quanto Gomorra. Due di esse, di sicuro le più emblematiche e ricche di conseguenze, tornano all’attenzione oggi, in altrettanti volumi. Il primo è La congiura. Potere e vendetta nella Firenze dei Medici (Laterza), scritto da Franco Cardini e Barbara Frale: la storia della congiura dei Pazzi, che, per quanto conosciutissima, riserva sempre spunti narrativi e interpretazioni che ne innovano l’attrattiva e il carisma.
Siamo nell’aprile 1478. Lorenzo il Magnifico è al suo apice. È il cosiddetto «tiranno amabile», signore di Firenze, grande mecenate, stratega della pace di Lodi che ha stabilizzato l’Italia nel 1454. E si trova alla testa di una grande holding bancario-commerciale, che permette di tessere contatti e alleanze, non solo di natura finanziaria, sull’intero continente. Con tanti nemici, in agguato. Per questioni di soldi, ancor prima che politiche. Papa è a Roma Sisto IV, il genovese Francesco della Rovere. Che non ama affatto Lorenzo. Anzi, gli fa una guerra spietata. Addirittura strappa al suo banco la fondamentale carica di depositario della Camera apostolica, fulcro della ricchezza della Chiesa. Ruolo che il Papa passa ad altri banchieri fiorentini della stessa levatura: i Pazzi.
Parte così lo scontro. Da una questione di danaro. I Medici, privati del loro ruolo romano, cominciano ad attaccare i Pazzi. Li incalzano, in una miscela micidiale fatta di rancori e di prevaricazioni. Ingiustizie che si trasformano, per i Pazzi, in desiderio di rivalsa. Di vendetta. L’anima del complotto è Francesco, che vive tra Roma e Firenze. Si intende con Girolamo Riario, nipote del Papa. Reclutano complici. Vogliono che Firenze sia riscattata dalla presenza tirannica dei Medici. Obiettivo che si può raggiungere in un solo modo: ammazzando Lorenzo e suo fratello Giuliano.
L’operazione assume forma. E, fatto straordinario, dei cinquanta congiurati tutti mantengono la consegna del silenzio. Nessuno tradisce. Cosa insolita, sottolineata da Niccolò Machiavelli stesso, convinto che le congiure crollassero per tre ragioni: tradimento, imprudenza o leggerezza, quando il numero dei congiurati superasse le tre o quattro persone. Il progetto va avanti. Si scelgono un luogo e una data. In un primo momento si pensa al 25 aprile. L’opzione: avvelenare i fratelli durante un banchetto. Ma l’idea salta. Si rimanda tutto al giorno dopo, durante la messa a Santa Maria del Fiore. E fu così.
Nel corso della celebrazione, i sicari si avventano su Giuliano. E lo trucidano, brutalmente. Lorenzo, invece, è ferito, ma resta in piedi. Gli fa da scudo Francesco Nori, che muore al suo posto. Lorenzo si asserraglia in sacrestia. Ci si barrica. La preda principale non è caduta nell’agguato. Il colpo non è riuscito. A quel punto, per i Pazzi, è la fine. Scatta la vendetta, che è innanzitutto popolare. È un massacro, senza pietà. Molti dei congiurati vengono precipitati dalle finestre di Palazzo della Signoria. I principali protagonisti, tra cui l’arcivescovo Francesco Salviati, impiccati. Mentre, in città, si scatena la damnatio memoriae dei Pazzi.
La vicenda non termina qui. Sisto IV lancia la scomunica contro i Medici; ed è guerra: di Roma e Napoli contro Firenze. Fino alla riconciliazione, raggiunta a costo di perdite e sacrifici fiorentini. Però la vendetta dei Medici prosegue, secondo Cardini e Frale per «sacro dovere d’onore». E si completa in circa dieci anni, quelli in cui il prestigio di Lorenzo in Ita- lia aumenta ancora. L’ago della bilancia della politica italiana, come lo definì Francesco Guicciardini.
La seconda congiura ci porta a Genova. Alla notte del 2 gennaio 1547. Decisiva, come scrive Gabriella Airaldi nel bel libro La congiura dei Fieschi. Un capodanno di sangue (Salerno), non solo per le sorti dell’Italia, ma del mondo. E non sono parole esagerate. Quella notte è l’epilogo di una lunga vicenda, cominciata diciannove anni prima, nel 1528: data fatidica quando, con un improvviso e inaspettato ribaltamento, l’ammiraglio Andrea Doria stabilisce che Genova abbandoni l’alleanza con Francesco I, re di Francia, per gettarsi tra le braccia di Carlo V d’Asburgo, imperatore germanico e al tempo stesso re di Spagna. Andrea dà l’ordine perché della città è il leader, il principe occulto, per potere effettivo. E Genova, come rileva l’autrice, si accoda, diventando uno dei pilastri dell’impero di Carlo V, grazie al suo porto, alla sua peculiare capacità finanziaria e al suo forziere, il Banco di San Giorgio: tutti elementi essenziali per chi, come gli Asburgo, aspirasse a un primato mondiale. E d’ora in poi, al Siglo de Oro spagnolo corrisponderà il «secolo dei genovesi», con la loro egemonia economica al di qua e al di là dell’Atlantico.
Questa scelta di Andrea Doria sconvolge tanto il panorama genovese quanto quello internazionale. Per ottenerla, aveva dovuto rimodellare la fisionomia della nobiltà cittadina. Integrarla con gente nuova. Smussarne la litigiosità. E ci era riuscito, con mano ferma ma pure con senso del compromesso. Circondato anche da personaggi di caratura sorprendente, come il banchiere Adamo Centurione. I dissapori, tuttavia, erano stati parecchi. In città e fuori. L’indipendenza delle istituzioni repubblicane veniva ormai considerata, da molte antiche famiglie, in bilico. Mentre Francesco I si dannava per far saltare il controllo di Andrea su Genova, spingendo sulle famiglie più ostili, nel tentativo di farla rientrare nella sfera di influenza francese.
Così, dopo il 1528 i tentativi di congiura contro Andrea fioccano. Ma l’ammiraglio, i complotti li blocca tutti. Li contiene. Li reprime. Fino al 1547. Andrea ora è davvero anziano. Ha da poco superato gli ottant’anni. Da vecchio leone, è temutissimo in città; ma tutti si aspettano che crolli, da un momento all’altro. Questa consapevolezza rende i suoi nemici più forti. Tra essi gli uomini della potente consorteria dei Fieschi, legati tradizionalmente alla Francia. Che decidono per il colpo di Stato, che avrebbe dovuto essere, nei loro piani, rapidissimo. E concludersi con la morte di Andrea e di Giannettino, suo nipote, destinato a succedergli.
Scorre molto sangue la notte del 2 gennaio. Cade ucciso Giannettino, ma, per pura fatalità, muore anche il capo della congiura, Gian Luigi Fieschi. Il vecchio leone invece no. È destino: lui scappa e sopravvive. E torna sulla scena genovese dopo pochi giorni. La sua vendetta sarà da vero capoclan. In essa si mescoleranno giustizia e violenza. E si innesterà sul conflitto che intanto si sta svolgendo, sul palcoscenico continentale, tra l’impero spagnolo e la corona francese. Una congiura con riflessi globali sugli equilibri geopolitici, quella raccontata da Gabriella Airaldi. Che resterà impressa nella memoria, non solo cittadina, ma europea. Non a caso, ne scriveranno molto tempo dopo il cardinale francese de Retz, in un’opera uscita nel 1665, e Friedrich Schiller in un dramma datato 1783. Sarà un s oggetto per i l pi t to re Fr a ncesco Hayez. E perfino Adolf Hitler ne parlerà, nel Mein Kampf.