Corriere della Sera - La Lettura
La ragazza dell’autogrill
La donna lasciò il piazzale travolto dalla pioggia e s’infilò nel ristorante come sarebbe entrata nel frammento d’una stella viola e argento, precipitata in quel momento sul pianeta terra. Si sentiva persa nello spazio, senza una qualunque ragione di esis
Incroci Al momento giusto, fecero in modo di potersi sfiorare. Con una voce che forse nemmeno lei conosceva mormorò: «Sei bellissima». L’altra sussurrò: «Sei meravigliosa»
Entrò in un autogrill come sarebbe entrata nel frammento d’una stella viola e argento, precipitata in quel momento sul pianeta terra. A lei, però, non importava di essere una terrestre. Si sentiva persa nello spazio, senza una qualunque ragione di esistere. Può succedere, le stava succedendo. Frattanto infuriava un temporale, i lampi correvano dietro ai lampi e l’autostrada luccicava. Lei era sola, veniva da non aver salutato nessuno. La sua solitudine era senza un prima, veniva cioè da altra solitu- dine, che è cosa diversa che essere soli e basta. Durante gli ultimi dodici chilometri aveva guidato gridando «Io esisto!» senza trovare altre parole da aggiungere. «Io esisto! Io esisto! Io esisto!» ripeteva e ripeteva ancora mentre il parabrezza le rispondeva scivolando morbido e gommoso sul vetro «Tòc toc-tòc», «Tòc toc-tòc».
Poi, all’improvviso, sul lato destro dell’autostrada deserta le era apparso quel dado di vetro e cemento, perciò aveva sterzato di colpo senza riflettere su quello che faceva. Scendendo non aveva nemmeno chiuso lo
sportello dell’auto. Una 2000 costosa e nuova di zecca.
«Io esisto» si era detta una volta di più ribellandosi ai suoi sandali color argento mentre sciacquavano in una pozzanghera grande come un oceano. «Non sto facendo un capriccio, non è un capriccio» aveva urlato dentro di sé senza però alzare la voce. Erano stati i suoi nervi che avevano urlato al suo vestitino troppo leggero che bagnandosi si appiccicava alla pelle.
A qualcosa, qualunque cosa, doveva pur aggrapparsi. Così all’improvviso, mentre i capelli le sgocciolavano sulla fronte e le guance, sperò fosse vero che niente capita per caso. Fu quando, una volta entrata nell’autogrill a un tavolino rubato a un incubo e coperto da una tovaglia di plastica a fiorellini color bianco sporco su uno sfondo grigio-celeste, riconobbe un suo vecchio corteggiatore o forse quasi stupratore — non ricordava più bene. L’aveva incontrato una notte, in via Sicilia, nella Roma di via Veneto. Quel tipo l’aveva presa o lei si era lasciata prendere perché aveva bisogno di dare del tu a qualcuno, perché aveva il bisogno di sentirsi massaggiare i piedi. Si ricordava che quel tipo l’aveva penetrata, o questa era stata la sua impressione, sudando come un bambino seduto sul vaso da notte. Era successo non sapeva più dove, in qualche posto vicino a Villa Borghese, forse in una Golf che odorava di paglia.
L’uomo faceva di mestiere il disc-jockey eternamente disoccupato, si chiamava Luisito Fantini e aiutava la gente a passare la notte o a trovare qualcuno con cui diventare competitivo. «La competitività è un salvavita», diceva. Stavolta Luisito faceva compagnia, un po’ perché era il suo mestiere e un po’ perché così aveva voluto il caso, a una coppia fuori fase. Questo bastò perché la ragazza dell’autostrada provasse un sentimento di familiarità diverso dall’amicizia e simili. Erano un lui e una lei che facevano palesemente mostra d’un che di alieno. Nelle pupille dell’uomo, bianco bello e freddo come una porcellana, avrebbe potuto benissimo vedersi riflesse le sabbie del pianeta rosso o qualcosa di altrettanto lontanamente cosmico.
Quanto alla sua compagna si mostrava non mostrandosi, si mostrava non diversamente da una scintilla troppo luminosa che esplode, scompare e torna a riapparire. Fatto sta che a quanti la guardavano anche solo per un attimo accadeva di tornare a guardarla non credendo che potesse esistere una bellezza così sottolineatamente bella. Una così faceva pensare di poter sparire lasciandosi dietro l’impressione d’essere il frutto d’un miraggio.
Adesso la giovane donna viziata dal denaro ma educata dal suo dirsi di no, sempre no e l’altra avevano preso a fissarsi senza accorgersi di farlo e senza minimamente supporre quanto avrebbe contato per en- trambe quel loro rapporto proprio perché fondato sul niente.
La lei viziata, che proprio per questo la faceva insopportabilmente su tutto, teneva la testa leggermente chinata in avanti così da strizzarsi meglio i capelli dopo averli stretti e raccolti in una specie di coda di cavallo. L’altra, che aveva i capelli intonati al brilluccichio crepitante d’una scintilla, le labbra disegnate con una matita verde e gli occhi turchini, a un tratto si era alzata, le era passata accanto dicendole «sei troppo magra, adesso devi cominciare a mangiare. Promettimi che lo farai». «Lo farò, te lo giuro», era stata la risposta. «Non hai nemmeno un golf?». Così, dopo un po’, ripassandole accanto le aveva porto una tazza di tè bollente. Il resto era successo nel nessun luogo dei pensieri quando sfuggono al controllo della ragione e vivono una loro strana vita in prossimità del niente.
A Roma la ragazza viziata fu più volte tentata di cercare Luisito. Non voleva però farsi raccontare qualche pettegolezzo relativo alla giovane donna dagli occhi turchini quanto parlarne con qualcuno che la conosceva come si può parlare d’un quadro. Tutte le volte una strana emozione l’aveva fermata.
Finalmente un pomeriggio, poco prima di Natale, le due donne si incrociarono sullo stesso marciapiede illuminato non diversamente da un teatro di posa hollywoodiano quando arriva la slitta tintinnante di Santa Klaus. Tutt’intorno addobbi di lampadine gialle, rosse, blu...
Nel vedersi, forse prima ancora di essersi riconosciute, rallentarono e camminarono per venirsi incontro. Furono pochi lunghissimi secondi. Ogni secondo o forse ogni coppia di secondi corrispose a un passo che sapeva d’essere molto più d’un semplice passo, d’un passo e via. Era un passo che le avvicinava nel tempo, nello spazio, nel deserto della vita in cui sarebbero tornate a perdersi. Passò un attimo, un niente che cambiava misteriosamente il senso delle loro vite. Poi, al momento giusto, entrambe fecero in modo di potersi sfiorare e la fulgente creatura prigioniera d’una scintilla, lambendo la spalla della ragazza troppo magra mormorò con una voce che forse nemmeno lei conosceva: «Sei bellissima». L’altra, nello stesso identico istante, le sussurrò «Sei meravigliosa».
Quindi corse via con la gola secca perché sapeva che nient’altro sarebbe più accaduto, che non si sarebbero più riviste e dunque tutto quanto l’aveva tenuta viva nel corso delle ultime settimane si era consumato. Tutto adesso sarebbe ricominciato dal momento in cui, guidando sopra un velo d’acqua che carezzava pericolosamente un grigio manto d’asfalto, lei aveva continuato a ripetersi senza accorgersi di farlo «io esisto! io esisto! io esisto!» e il tergicristallo aveva continuato a risponderle sempre e solo «Tòc toc-tòc», «Tòc toc-tòc».