Corriere della Sera - La Lettura
Nella nuova società ci sono i precittadini
Fabio Deotto immagina un mondo, dopo Occupy Wall Street, ad alto tasso di sorveglianza poliziesca: droni, tracciabilità delle persone, esistenze marginalizzate. Un mondo senza denaro, ma ancora capace di dissenso
C’è ancora spazio in Occidente per il dissenso? Parliamo del dissenso organizzato, quell’organo spontaneo dell’inconscio collettivo che in forme diverse ha fatto da piattaforma a tanti segmenti di trasformazione della storia del secolo passato. Movimenti operai, autunni caldi, i pacifisti contro il Vietnam — tutti lampi di mitologia novecentesca che si spengono tristemente nel postfordismo, con la fine — pardon, la liquefazione — del lavoro e quindi dei rapporti di produzione e in ultima analisi della lotta di classe. È un fatto che Occ upy Wall St re e t a bbi a prodotto pi ù hashtag che politiche di sistema (per gli interessati si rimanda a Nick Srnicek e Alex Williams, Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work,
Verso), e qui da noi si ha la sensazione che i No Tav resistano, più che altro, con lo spirito di Davide contro Golia. E quindi? Davvero le folk politics nell’era digitale hanno perso la presa sulla realtà delle gioiose (ma anche occasionalmente plumbee) macchine da guerra della contestazione?
Fabio Deotto ipotizza di no. Oggi il dissenso ha ancora senso. Ma per percorrere questa ipotesi, fatalmente, bisogna mettere in piedi una distopia — cioè una realtà narrativa leggermente scostata dalla realtà storica ma con essa fittamente in dialogo. Il punto in cui la «distopia dolce» di
Un attimo prima (Einaudi Stile libero) si biforca dalla storia è precisamente Zuccotti Park: nel romanzo di Deotto le proteste di Occupy Wall Street hanno generato un effetto-valanga del dissenso (evocativamente definito Il Crollo), poi evidentemente soppresso o meglio assimilato. Il risultato è una società ad alto tasso di sorveglianza: droni polizieschi, tracciabilità totale dei cittadini, segregazione dei drop-out in apposite strutture concentrazionarie, con lo stigma di «precittadini». Una società insomma, non troppo diversa dalla nostra — ci si conosce su Tinder, ci si incontra in un bar, eventualmente ci si accoppia o più frequentemente ci si intristisce molto. C’è però una differenza sostanziale, che è quella dell’abolizione del denaro, in funzione dei più pratici «punti sanitari» da spendere per ottenere servizi, o farseli scalare dallo Stato non appena si sgarra con una birra in più. E dire che a Zuccotti Park un capopolo tuonava: «Non possiamo pensare di liberarci del capitalismo senza prima liberarci del concetto di denaro». Il capitalismo l’ha preso in parola e, ancora una volta, ha messo in pratica il suo primo principio di autoconservazio- ne, che è appunto quello di assimilare le antinomie facendone sistema.
L’effetto è questa sorta di grigia dittatura del welfare, in cui si snoda la vicenda del protagonista: Edoardo Faschi, bio- logo milanese di basso cabotaggio segnato dalla perdita del fratello Alessio, prima militante e poi guru dei movimenti di protesta americani. Per superare il trauma della morte di Alessio, Edoardo si sottopone a una procedura sperimentale di reenactment dell’inconscio, che ripropone in chiave psicoanalitica la tecnica della mirror box di Ramachandran. Al posto dell’arto fantasma qui c’è il lutto, narrativamente rivissuto fino al ricordo
fulcro, l’angolo cieco del passato da abitare e poi rimuovere. Grazie a questo efficace espediente narrativo, Deotto sdoppia la narrazione su due piani: il passato in cui si snoda la biografia familiare dei fratelli, prima in Lombardia poi negli Usa, e il presente in cui un Edoardo sempre più in crisi deve fare i conti con la sua ex moglie Claudia, il nipote «precittadino» Sealth e la recrudescenza di una nuova e più feroce ondata di contestazione, la cosiddetta Muraglia Umana, a cui Sealth è pericolosamente contiguo.
Una delle sfide del romanzo è quella di far coesistere immaginari narrativi molto lontani nella stessa storia. Si passa da una Milano molto ben dettagliata, anche toponomasticamente, alle microcomun i t à d i n a t i v i a mer i c a n i , a g l i s q u a t newyorchesi, a Servi della Gleba di Elio e le Storie Tese strimpellata in mezzo alle proteste — chitarre e falò come in C’era
vamo tanto amati, solo che qui siamo a Zuccotti Park. Deotto riesce bene quasi sempre — anche perché, persino nell’alienazione vertiginosa di una civiltà orfana del valore del lavoro, non dimentica l’umanità dei suoi personaggi. La malinconia, soprattutto, di Edoardo. O certe lunghe descrizioni di paesaggi americani che rischierebbero l’esotismo viziato dallo sguardo europeo e invece risultano struggenti.
Contestualmente si smarca dal genere (quasi) puro del precedente Condominio
R39, senza abbandonarlo del tutto: anche qui alcuni tocchi di thriller servono a puntellare la narrazione, specialmente nell’ultima parte. E non è un male perché i dispositivi di genere vengono maneggiati con perizia, lasciando respirare i mondi interiori dei personaggi principali (un po’ meno quelli di alcuni secondari). E se poi l’Occidente reale non sembra andare in direzione di una dittatura del welfare, quanto piuttosto in quella di un feudalesimo di super-ricchi della Silicon Valley geneticamente ingegnerizzati e poveri cristi in via di estinzione nel resto del mondo, pazienza. In fondo — con buona pace di Ayn Rand — alle distopie non si chiede di disegnare il futuro ma di dare forma poetica alle mostruosità del presente, possibilmente mettendo su pagina esseri umani che sentano cose che sentiamo anche noi. Come Edoardo, che quando ripensa a sé stesso ragazzino nel buio della cameretta, pensa così: «Intuire cosa significasse essere adulti, e comunque sapere di non esserlo ancora (…) sapere che la vecchiaia è così distante da non esistere veramente, che la morte è una teoria senza prove, e non riesce a inquietare se non di sera, nel dormiveglia, dopo aver guardato un horror da solo, e alla fine capire che tutto può davvero succedere».