Corriere della Sera - La Lettura
Il monito contro l’ineguaglianza
A due secoli dalla nascita di Marx (1818), abbiamo chiesto a studiosi dalle idee diverse di valutarne l’eredità, come se scrivessero una voce per un dizionario di scienze sociali
Per cogliere la straordinaria rilevanza del pensiero di Karl Marx basta riflettere sull’impatto che esso ha avuto su un secolo e mezzo di storia. Dal 1848, quando esce il Manifesto del Partito comunista, fino alla fine del XX secolo la dottrina di Marx ha segnato un’epoca: ad essa si sono richiamati per primi i socialismi europei, che ben presto hanno cominciato a darne anche letture «revisioniste» e riformiste; e in seguito, a partire dalla Prima guerra mondiale, i protagonisti delle rivoluzioni d’Oriente (Russia e Cina) e i comunisti occidentali. Ora che questo ciclo sembra concluso, almeno nel nostro continente, l’impatto e il valore del pensiero di Marx si possono valutare dalla favorevole posizione di coloro che dispongono del senno di poi.
Se esso ha inciso così profondamente su centocinquant’anni di storia, se ha avuto un effetto paragonabile solo a quello dei fondatori di religioni, ciò significa che ha toccato dei punti nevralgici, che ha dato risposta a dei bisogni essenziali. Marx, infatti, è stato il primo intellettuale europeo a conferire alla protesta e alla critica sociale, che fin lì avevano avuto carattere retorico e moralistico, una forma «scientifica», cioè nutrita di tutto il meglio che la grande cultura dell’epoca aveva prodotto: dalla filosofia di Hegel all’economia di Adam Smith e David Ricardo, alla cultura politica della rivoluzione francese.
Ma cosa resta ancora valido di quella grande costruzione intellettuale che, nelle molte vicende che ha attraversato, ha funzionato anche come un mito o addirittura come una sorta di religione laica? Quel che si è certamente dissolto, e non da ieri, è la pretesa di trovare nell’opera di Marx una visione del mondo compiuta e onnicomprensiva. Il primo a non pensarla così era proprio Marx stesso, che considerava il suo lavoro come un cantiere aperto: la maggior parte delle sue pagine le lasciò inedite; e quando pubblicò Il Capitale, l’opera della vita, continuò a correggerlo ogni volta che ne preparava una nuova edizione. Nel suo cantiere ci sono molte grandi intuizioni che ancora oggi si lasciano apprezzare, e diversi strumenti che si possono tuttora usare, magari anche con finalità diverse da quelle che furono proprie del filosofo di Treviri nella sua epoca.
Il Marx più lungimirante, e in un certo senso insuperato, è quello che coglie con sguardo profetico alcuni tratti essenziali della dinamica del capitalismo che nella vicenda storica troveranno puntuale conferma: l’impulso globalizzante del capitale verso la creazione del mercato mondiale, la tendenza a sostituire sempre più il lavoro umano con sistemi automatici di macchine, il carattere illimitato e instabile dell’accumulazione capitalistica, della quale lo sviluppo e le crisi costituiscono aspetti parimenti essenziali.
Ma forse ancor più interessante è il fatto che il pensiero di Marx può essere utilizzato, uscendo fuori dai suoi orizzonti e dalle sue intenzioni, per riflettere sui limiti e le insufficienze della nostra moderna democrazia. A partire dai suoi primi articoli, infatti, Marx denuncia con grande decisione quella che gli appare come una delle più stridenti contraddizioni della modernità: la democrazia politica si basa sull’assunto che tutti i cittadini siano egualmente sovrani, mentre nella società continuano a prosperare le grandi ineguaglianze (oggi persino crescenti) di potere, di denaro, di cultura. La domanda che pertanto si pone è la seguente: fino anche punto la persistenza di ineguaglianze e privilegi è compatibile con l’eguaglianza democratica dei cittadini?
È evidente che non lo è, almeno da due punti di vista. In primo luogo perché non può essere pienamente cittadino chi vive condizioni di deprivazione culturale e sociale, che le nostre società non sono ancora riuscite a superare. In secondo luogo perché, anche nelle nostre democrazie liberali, il possesso della ricchezza è ancora una delle leve principali per accedere al potere politico (Donald Trump docet) o per controllarlo. Con buona pace dell’eguaglianza democratica.