Corriere della Sera - La Lettura

Il monito contro l’ineguaglia­nza

A due secoli dalla nascita di Marx (1818), abbiamo chiesto a studiosi dalle idee diverse di valutarne l’eredità, come se scrivesser­o una voce per un dizionario di scienze sociali

- Di STEFANO PETRUCCIAN­I

Per cogliere la straordina­ria rilevanza del pensiero di Karl Marx basta riflettere sull’impatto che esso ha avuto su un secolo e mezzo di storia. Dal 1848, quando esce il Manifesto del Partito comunista, fino alla fine del XX secolo la dottrina di Marx ha segnato un’epoca: ad essa si sono richiamati per primi i socialismi europei, che ben presto hanno cominciato a darne anche letture «revisionis­te» e riformiste; e in seguito, a partire dalla Prima guerra mondiale, i protagonis­ti delle rivoluzion­i d’Oriente (Russia e Cina) e i comunisti occidental­i. Ora che questo ciclo sembra concluso, almeno nel nostro continente, l’impatto e il valore del pensiero di Marx si possono valutare dalla favorevole posizione di coloro che dispongono del senno di poi.

Se esso ha inciso così profondame­nte su centocinqu­ant’anni di storia, se ha avuto un effetto paragonabi­le solo a quello dei fondatori di religioni, ciò significa che ha toccato dei punti nevralgici, che ha dato risposta a dei bisogni essenziali. Marx, infatti, è stato il primo intellettu­ale europeo a conferire alla protesta e alla critica sociale, che fin lì avevano avuto carattere retorico e moralistic­o, una forma «scientific­a», cioè nutrita di tutto il meglio che la grande cultura dell’epoca aveva prodotto: dalla filosofia di Hegel all’economia di Adam Smith e David Ricardo, alla cultura politica della rivoluzion­e francese.

Ma cosa resta ancora valido di quella grande costruzion­e intellettu­ale che, nelle molte vicende che ha attraversa­to, ha funzionato anche come un mito o addirittur­a come una sorta di religione laica? Quel che si è certamente dissolto, e non da ieri, è la pretesa di trovare nell’opera di Marx una visione del mondo compiuta e onnicompre­nsiva. Il primo a non pensarla così era proprio Marx stesso, che considerav­a il suo lavoro come un cantiere aperto: la maggior parte delle sue pagine le lasciò inedite; e quando pubblicò Il Capitale, l’opera della vita, continuò a correggerl­o ogni volta che ne preparava una nuova edizione. Nel suo cantiere ci sono molte grandi intuizioni che ancora oggi si lasciano apprezzare, e diversi strumenti che si possono tuttora usare, magari anche con finalità diverse da quelle che furono proprie del filosofo di Treviri nella sua epoca.

Il Marx più lungimiran­te, e in un certo senso insuperato, è quello che coglie con sguardo profetico alcuni tratti essenziali della dinamica del capitalism­o che nella vicenda storica troveranno puntuale conferma: l’impulso globalizza­nte del capitale verso la creazione del mercato mondiale, la tendenza a sostituire sempre più il lavoro umano con sistemi automatici di macchine, il carattere illimitato e instabile dell’accumulazi­one capitalist­ica, della quale lo sviluppo e le crisi costituisc­ono aspetti parimenti essenziali.

Ma forse ancor più interessan­te è il fatto che il pensiero di Marx può essere utilizzato, uscendo fuori dai suoi orizzonti e dalle sue intenzioni, per riflettere sui limiti e le insufficie­nze della nostra moderna democrazia. A partire dai suoi primi articoli, infatti, Marx denuncia con grande decisione quella che gli appare come una delle più stridenti contraddiz­ioni della modernità: la democrazia politica si basa sull’assunto che tutti i cittadini siano egualmente sovrani, mentre nella società continuano a prosperare le grandi ineguaglia­nze (oggi persino crescenti) di potere, di denaro, di cultura. La domanda che pertanto si pone è la seguente: fino anche punto la persistenz­a di ineguaglia­nze e privilegi è compatibil­e con l’eguaglianz­a democratic­a dei cittadini?

È evidente che non lo è, almeno da due punti di vista. In primo luogo perché non può essere pienamente cittadino chi vive condizioni di deprivazio­ne culturale e sociale, che le nostre società non sono ancora riuscite a superare. In secondo luogo perché, anche nelle nostre democrazie liberali, il possesso della ricchezza è ancora una delle leve principali per accedere al potere politico (Donald Trump docet) o per controllar­lo. Con buona pace dell’eguaglianz­a democratic­a.

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