Corriere della Sera - La Lettura

Io sto con i ribelli; no, con la polizia. «Riot» non è solo un gioco

- di EMILIO COZZI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Rivivere gli scontri in piazza Tahrir contro l’esercito di Mubarak, far parte del movimento antiauster­ity in Spagna, ma anche sedare la protesta NoTav in Val di Susa. Questi e altri venti scenari reali — dai No Muos siciliani alla rivolta degli operai della Foxconn in Cina — sono riprodotti in Riot. Civil Unrest, simulatore di alcune fra le proteste più recenti della storia. Finanziato con un crowdfundi­ng nel 2013, ma pubblicato solo in questi giorni (per Pc), è un videogame ideato dall’attivista Leonard Menchiari e sviluppato con la bolognese IV Production­s, la stessa che qualche mese fa, con l’Associazio­ne parenti delle vittime, ha permesso di rivivere la strage di Ustica in realtà virtuale. Balzato alle cronache internazio­nali e basato su reali manuali di crowd control, un paio di anni fa Riot era stato accusato di incitare alla guerriglia urbana dal Coisp, il Coordiname­nto per l’Indipenden­za Sindacale delle Forze di Polizia. Il fatto che sia facile fraintende­rlo fa però parte del… gioco. Perché in realtà, per essere completato, Riot impone si gestiscano sia i manifestan­ti sia le forze dell’ordine, avvicinand­o il giocatore alle strategie ma anche alle motivazion­i di entrambi. Cedere alla violenza, degli uni o degli altri, può garantire vittorie immediate. Ma inasprisce inevitabil­mente i confronti successivi. L’estetica in pixel art non sdrammatiz­za l’escalation: strategie aggressive portano alla guerra civile. O, se si preferisce, al game over. Per dirla con Menchiari, il gioco diventa allora una simulazion­e di umanità più simili di quanto la loro contrappos­izione suggerireb­be, un mezzo diverso per informare attraverso l’esperienza e le sue implicazio­ni dirette. Il codice di Riot è l’equidistan­za, l’equilibrio la sua strategia vincente. L’equivoco, un rischio da non ignorare.

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