Corriere della Sera - La Lettura
Io sto con i ribelli; no, con la polizia. «Riot» non è solo un gioco
Rivivere gli scontri in piazza Tahrir contro l’esercito di Mubarak, far parte del movimento antiausterity in Spagna, ma anche sedare la protesta NoTav in Val di Susa. Questi e altri venti scenari reali — dai No Muos siciliani alla rivolta degli operai della Foxconn in Cina — sono riprodotti in Riot. Civil Unrest, simulatore di alcune fra le proteste più recenti della storia. Finanziato con un crowdfunding nel 2013, ma pubblicato solo in questi giorni (per Pc), è un videogame ideato dall’attivista Leonard Menchiari e sviluppato con la bolognese IV Productions, la stessa che qualche mese fa, con l’Associazione parenti delle vittime, ha permesso di rivivere la strage di Ustica in realtà virtuale. Balzato alle cronache internazionali e basato su reali manuali di crowd control, un paio di anni fa Riot era stato accusato di incitare alla guerriglia urbana dal Coisp, il Coordinamento per l’Indipendenza Sindacale delle Forze di Polizia. Il fatto che sia facile fraintenderlo fa però parte del… gioco. Perché in realtà, per essere completato, Riot impone si gestiscano sia i manifestanti sia le forze dell’ordine, avvicinando il giocatore alle strategie ma anche alle motivazioni di entrambi. Cedere alla violenza, degli uni o degli altri, può garantire vittorie immediate. Ma inasprisce inevitabilmente i confronti successivi. L’estetica in pixel art non sdrammatizza l’escalation: strategie aggressive portano alla guerra civile. O, se si preferisce, al game over. Per dirla con Menchiari, il gioco diventa allora una simulazione di umanità più simili di quanto la loro contrapposizione suggerirebbe, un mezzo diverso per informare attraverso l’esperienza e le sue implicazioni dirette. Il codice di Riot è l’equidistanza, l’equilibrio la sua strategia vincente. L’equivoco, un rischio da non ignorare.