Corriere della Sera - La Lettura
Tutto finisce, tranne l’infinito
Si conclude un anno, si consumano gli amori, si modificano i gusti e le passioni... La natura umana non fa nessuna esperienza dell’eternità. Eppure l’animo umano ci sbatte costantemente contro Uno dei primi a perdere le staffe davanti all’assenza di limi
Cosa succede davvero quando i concetti e le definizioni basilari della nostra cultura passano per la cruna dell’ago del singolo essere umano? È un problema di cui si parla troppo poco, ma capace di coinvolgere allo stesso titolo la filosofia e la scienza, la morale e la religione con tutto il loro lessico universale, teoricamente valido per tutti. Dentro ognuno di noi, dentro l’inguaribile pastrocchio di ignoranza e di follia che è l’individuo concreto, tutte le parole compiono percorsi imprevedibili. Anche quelle di impiego più largo e frequente si colorano di sconcertanti tonalità affettive. Tra i significati collettivi e quelli individuali si spalancano abissi incolmabili. Entriamo nel regno delle attrazioni e delle repulsioni prive di motivi razionali. Che è il regno della poesia, della letteratura, intese come lingua della soggettività, della reazione personale alla pressione del mondo.
Nulla di più istruttivo, da questo punto di vista, delle vicende moderne del concetto di «infinito». Sembrerebbe qualcosa di così astratto, di così pacificamente speculativo, da non concedere nulla ai sentimenti. Tutta la nostra vita, in effetti, trascorre nel contrario dell’infinito: che è il limite, la quantità assegnata, la caducità e la sua consapevolezza. Non facciamo mai esperienza di qualcosa di intrinsecamente infinito, e se pure la facessimo, non ce ne accorgeremmo. L’infinito dunque, così estraneo al nostro senso comune, dovrebbe essere al riparo dalla no- stra antipatia, come tanti concetti che si godono l’indifferenza dell’umanità nel rispettabile limbo delle astrazioni.
Chi studia la storia del pensiero, invece, sa come sono andate le cose almeno a partire da una famosa nota di Georg Wilhelm Friedrich Hegel alla Scienza della logica, il cui primo volume apparve nel 1812. L’infinito — almeno nella forma della «cattiva infinità» o schlechte Unendlichkeit — con tutti i suoi consueti simboli (granelli di sabbia, sciami di stelle...) era capace di far perdere le staffe persino al padre nobile dell’idealismo, al più profondo e complesso dei filosofi.
Verrebbe spontaneo opporre alla «cattiva infinità» hegeliana L’Infinito di Giacomo Leopardi, le cui stesure definitive risalgono agli anni 1818-1819, due secoli fa. È da una trentina d’anni che studio questo delicato e meraviglioso congegno verbale, cercando di tenermi aggiornato sulle nuove interpretazioni e i commenti degli studiosi. È dunque sulla base di una discreta esperienza che posso affermare di capire questo vertice dello spirito umano sempre di meno. Ogni volta che mi ripeto questi quindici versi, mi sembra di intravedere nuove prospettive, nuovi indizi, nuovi percorsi. Così, credo, agisce sempre su di noi una grande poesia: quanto più ci insegna a vivere, tanto meno ci concede di afferrare il suo significato.
Di una cosa solo sono sicuro: L’infinito non è affatto
un elogio dell’infinito. Semmai, ciò che il poeta vuole descrivere è un processo di trasformazione delle emozioni, descritto con una prodigiosa sapienza psicologica. Rileggiamo attentamente: nei primi otto versi il pensiero tocca sì il limite dell’infinito, ma lì si smarrisce, «si spaura», è quasi costretto a battere in ritirata, a ritornare su se stesso, dentro quei limiti che definiscono l’umano: la famosa siepe, e il rumore del vento che la percuote. È solo tenendosi ben ancorato a questa finitezza che la poesia, nella seconda parte, può abbandonarsi a un nuovo movimento di espansione, come qualcuno che calchi un terreno più solido dopo aver messo il piede in fallo.
Ma perché si arrivi a un esito felice, alla dolcezza del naufragio, bisognerà che al pensiero dell’infinito, privo di una misura umana, si sostituisca quello dell’eterno. Lo spiegava bene uno dei più fini e perspicaci commentatori di Leopardi, Giuseppe De Robertis, nel 1927: l’«immensità», il «mare» in cui il pensiero del poeta è felice di naufragare «è l’eterno, non l’infinito dove l’animo si perde».
Ma che differenza c’è tra l’infinito e l’eterno? Perché l’idea del primo provoca smarrimento, mentre quella del secondo è «dolce»? È come se Leopardi ci invitasse a non arrenderci, a cercare il terreno più giusto nel quale piantare il seme dell’umano. La scommessa dell’Infinito, mi sembra, consiste nel rendere interiore, e dunque accettabile, la smisurata estraneità del mondo. Ciò può accadere solo esercitando al massimo grado il senso del tempo, che è un potere molto più ampio e complesso della me- moria, in grado di metabolizzare, per così dire, la terribile, gelida astrazione dell’infinito.
La storia dell’immaginazione letteraria è tessuta di echi e risonanze più che di veri e propri «temi» dotati di un’evoluzione. Si ruota intorno alle stesse immagini, che suscitano paure e desideri praticamente immutabili nel tempo. A volte ci sembra che libri apparsi a distanza di secoli l’uno dall’altro siano stati scritti dalla stessa persona. Dico questo perché non riesco a impedirmi di leggere l’idillio di Leopardi alla luce di certi racconti di Jorge Luis Borges nei quali l’infinito produce un’immaginazione addirittura lussureggiante, invariabilmente legata all’idea di una minaccia, di un contagio, dell’irruzione nel nostro mondo di qualcosa di inconciliabile, di insostenibile.
Non è infrequente il caso in cui l’infinito si concreta in un oggetto, che in realtà è un campo di energie pericolose, una voragine portatile capace di divorare il senso di ciò che siamo e di ciò che conosciamo. Tra questi oggetti, il più inquietante è forse Il libro di sabbia che dà il titolo a un famoso racconto scritto a metà degli anni Settanta. Il protagonista del racconto, un bibliotecario di Buenos Aires in pensione, ne viene in possesso acquistandolo da un venditore dalla fisionomia indistinta e poco loquace, scozzese di origine, che ha tutta l’aria di essere impaziente di sbarazzarsi del prodigio. Racconta di averlo lui stesso acquistato in India in cambio di poche rupie e una normalissima Bibbia. Il Libro di sabbia (chiamato così perché «né il libro né la sabbia hanno principio o fine») ha le apparenze di un oggetto normalissimo e abbastanza logoro, un vecchio volume in ottavo rilegato in tela e stampato su due colonne in una lingua sconosciuta. Ma ci vuole poco al narratore per capire che c’è qualcosa di strano, a partire dalla numerazione delle pagine, spropositata e casuale (alla pagina 40.514 segue la 999, e così via). Ma soprattutto, in qualunque modo si sfoglino le pagine, non si riesce a leggerne né la prima né quella finale. Rimasto solo con il suo nuovo acquisto, il narratore diventa presto lo schiavo del Libro di sabbia. Percepisce fin troppo acutamente la sfida mortale che quella manifestazione dell’infinito tende ai limiti necessari all’esistenza umana. Il Libro di sabbia, in capo a qualche mese, viene considerato dall’anziano bibliotecario «un oggetto da incubo, una cosa oscena che infamava e corrompeva la realtà». Dove ci siamo noi, insomma, dove dovrebbe regnare la «realtà», non c’è spazio per nulla che possa esistere facendo a meno di un inizio e di una fine. Il protagonista del racconto decide di liberarsi di quell’oggetto malvagio, nascondendolo tra le decine di migliaia di volumi conservati sugli scaffali della Biblioteca Nazionale. Quella di disfarsene può essere giudicata una saggia idea; molto meno saggio è il metodo. Ma gli oggetti come il Libro di sabbia vanno distrutti, nasconderli non serve a nulla, rispuntano sempre fuori.
Borges è uno scrittore troppo intelligente per ignorare questa elementare regola fiabesca. Sa benissimo che il rimedio escogitato dal suo protagonista è ancora peggiore del male, che quel libro così pericoloso troverà il modo di uscire dalla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, finendo in chissà quali mani, assumendo chissà quali travestimenti.
Personalmente, credo di averlo avvistato almeno due volte. La prima volta, ho riconosciuto il Libro di sabbia nella Storia infinita, il romanzo d’avventure di proprietà del libraio Carlo Corrado Coriandoli, che lo sta leggendo all’inizio del capolavoro di Michael Ende, che si intitola La storia infinita come il libro prodigioso di cui parla, alla stessa maniera in cui anche il racconto di Borges si intitola Il libro di sabbia. Ma attenzione: non è detto che l’oggetto inventato da Borges debba per forza rimanere vincolato alla sua natura di libro. Cosa sarà mai l’Infinte Jest di David Foster Wallace, se non un sorprendente, indefinibile, narcotico «film di sabbia», nuova e di sicuro non ultima incarnazione di quell’infinito che non smette di turbare i sogni e le veglie della nostra ragione?