Corriere della Sera - La Lettura

La beffa della cena dalla terribile zia Ines

- Di FABIO GENOVESI

Èchiaro che non siamo soli nell’universo, che da qualche parte nell’infinito esistono altri mondi pieni di vita. Creature fatte come noi, o magari simili a piovre o funghi giganti. Che non sono ancora in grado di arrivare fin qua sulla Terra, oppure sono più intelligen­ti di noi e già ci riescono, e sono gli ufo che ogni tanto avvistiamo nei cieli. O forse sono ancora più intelligen­ti di così, e hanno capito che è meglio tenersi lontani dalla razzaccia umana e dal nostro pianeta incasinato.

Non lo sappiamo, non ne abbiamo la minima idea, eppure una cosa è sicura: per quante forme di vita possano brulicare di là dalle stelle, per quanti brutti caratteri possano fiorire nello spazio senza fine, non esiste nessuno nell’universo che sia più antipatico della mia zia Ines.

Era famosa la zia per quanto era antipatica. Quando passava per le vie del paese le persone si nascondeva­no e gli animali scappavano, tutti tranne i dobermann e i pastori tedeschi che invece scodinzola­vano sottomette­ndosi al capobranco. E se qualcuno ogni tanto andava a casa sua, era solo perché glielo ordinava il dottore, siccome la Ines sapeva fare le punture. Nelle chiappe, nella pancia, da tutte le parti, le faceva bene e le faceva gratis. Che a sentirlo così può sembrare un gesto generoso e di cuore, ma pure io che avevo dieci anni l’avevo capito subito, che la Ines in realtà ti faceva le punture perché ci provava gusto.

Con la siringa in mano e qualcuno in attesa di essere trafitto, di colpo diventava allegra, sorridente e chiacchier­ina, mentre con gran calma preparava l’iniezione lì davanti ai tuoi occhi e ti mostrava quanto era grosso e appuntito l’ago che stava per piantarti nella carne. Poi prendeva un batuffolo di cotone con l’alcol e ti massaggiav­a la pelle, e ancora sorridendo diceva «stai fermo eh, nemmeno un tremito, che una volta un bimbo come te ha tremato appena, l’ago si è spezzato e gli è finito nelle vene, e dalle vene su su fino al cuore. E adesso, se quel bimbo vuoi andarlo a trovare, devi andare al cimitero».

E io non volevo andarlo a trovare, ma in quell’attimo atroce e infinito in cui il cotone si staccava dalla pelle e sentivo il fresco bruciante dell’alcol nel punto che stava per essere trafitto, smettevo di respirare e di quel bimbo sventurato mi preparavo a diventare il vicino di casa.

Però alla fine no, alla fine mi rialzavo ed ero ancora vivo, ringraziav­o la zia e il Signore, e uscivo nel mondo fuori che di colpo era luccicante e liscio e pieno di cose solo belle. Almeno fino a quel giorno lì, che era il primo gennaio e avevo appunto dieci anni, e dal nulla la nonna Giuseppina mi butta addosso queste parole così assurde che sembravano di una lingua straniera, parlata in un Paese spaventoso che non avrei voluto visitare mai:

— Su, dài, mettiti il giubbotto e pettinati bene, che stasera si va a cena dalla zia Ines.

Così ha detto, giuro. E se andare a trovarla era una follia, cenare da lei era una tortura disumana e infinita, come un’iniezione dolorosa che durava un paio d’ore. E toccava a me e alla nonna, alla mamma e agli zii, forse per fare un fioretto a Gesù Bambino che era nato da poco, e iniziare l’anno nuovo con tutti i peccati perdonati.

Però io ero piccolo e secondo me di peccati addosso non ne avevo mica. Al massimo una mattina durante la messa avevo chiacchier­ato un po’ col mio amico Sergio, che finalmente gli erano arrivati gli occhiali a raggi X in vendita nell’ultima pagina dei fumetti, e dovevo saperlo subito se funzionava­no davvero, se li mettevi e i tuoi occhi attraversa­vano la materia, e i passanti maschi li vedevi come scheletri, e invece le femmine per qualche motivo le vedevi nude.

Mentre glielo chiedevo, la catechista mi aveva guardato malissimo e mi aveva detto che disturbare la messa era un peccato grave. Ma insomma, non così grave da meritare questa cena tremenda, secondo me. L’ho detto pure agli zii, e loro: — ecco, e allora figurati se ce la meritiamo noi, che alla messa non ci andiamo nemmeno!

Poi le mani dello zio Aldo, forti come le tenaglie di un granchio, mi hanno preso e buttato di peso sul camion. La nonna invece saliva sull’auto della mamma, però prima ha fatto le ultime raccomanda­zioni agli zii che si pigiavano addosso a me.

— Quando arrivate non fate casino, niente clacson né urli, che la Ines non sopporta i rumori. E gli zii — va bene. — E non parcheggia­te davanti al cancello, che la Ines vuole vederlo sempre libero. — Va bene. — E spegnete le sigarette prima di entrare, anzi non fatevi vedere con la sigaretta accesa, che la Ines non sopporta il fumo.

— Va bene —, rispondeva­no fissi gli zii, proprio loro che di solito non gli andava bene nulla di quel che succedeva nel mondo, e prendevano come affronti personali cose tipo le giornate che diventavan­o nuvolose o i semafori che diventavan­o rossi.

E se anche adesso i semafori diventavan­o rossi era impossibil­e capirlo, perché gli zii fra poco non potevano più fumare e allora dentro il camion si sfogavano tutti e quattro succhiando le sigarette fino a fargli prendere fuoco in cima, e sembrava di viaggiare nella nebbia. Ma vedere la strada non serviva, bastava che lo zio Aldo guidasse appiccicat­o all’auto della mamma lì davanti e non c’erano problemi. Anzi, un problema c’era, e gigantesco: a forza di curve e incroci avevamo già passato la chiesa e l’ospedale, e la mamma ci stava portando dritti verso la casa della zia Ines.

Che ogni volta che ci vedeva, invece di chiederci se stavamo bene o cose così, diceva: — eccoli a passeggio, i fannulloni. Bah, siete sempre a spasso ma non venite mai a trovarmi, non vi importa come sto, per voi potrei essere morta.

E lo zio Athos: — magari —, rispondeva sottovoce. Solo

Piangevo la morte dell’anno vecchio. Che anche lui all’inizio si era preso baci e brindisi e fuochi d’artificio. L’anno nuovo si apriva subito con questa cena sciagurata, e allora io volevo aggrapparm­i alla coda del passato e scongiurar­lo di non lasciarmi

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 ??  ?? Il racconto Ines era cattiva, noi la frequentav­amo solo per farci fare le punture (e perché non si faceva pagare, visto che ci provava gusto). La volta che toccò andare a mangiare da lei, successe qualcosa di straordina­rio. Una serata meraviglio­sa, una lezione di felicità
Il racconto Ines era cattiva, noi la frequentav­amo solo per farci fare le punture (e perché non si faceva pagare, visto che ci provava gusto). La volta che toccò andare a mangiare da lei, successe qualcosa di straordina­rio. Una serata meraviglio­sa, una lezione di felicità

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