Corriere della Sera - La Lettura
È l’irruzione dell’Altro che smentisce la Totalità
L’idea di Infinito veniva in passato ascritta a quella serie di attributi che le moderne teodicee assegnavano a Dio come espressione della sua natura. Emmanuel Lévinas ha ribaltato questa visione nel suo libro Totalità e Infinito (Jaca Book, 1980), attribuendo a tale idea il significato di strumento mediante il quale sottoporre a vaglio critico la concezione ontologica del pensiero occidentale, e dunque le teodicee che facevano ad essa riferimento. Opponendolo al concetto di Totalità, che coincide con la pretesa dell’essere di includere in sé tutta la realtà e di esercitare su di essa un dominio assoluto — a questa pretesa vanno ricondotti i totalitarismi ideologici e i regimi totalitari — Lévinas considera l’Infinito come una categoria cui corrisponde un’idea che è in noi, ma che non possiamo totalmente contenere; in altre parole, come ciò che sta alla radice e anima il desiderio umano, che è desiderio dell’inesauribile; è appello a una assoluta trascendenza.
L’Infinito costituisce pertanto un importante fattore di relativizzazione (che non significa necessariamente relativismo) di ogni dottrina, anche teologica, in nome della convinzione che la verità non può mai essere compiutamente espressa in alcuna formulazione, la quale può avere soltanto il carattere di sorgente di altre. Ma l’aspetto più significativo della concezione dell’Infinito presente nella filosofia di Lèvinas sta nell’aver messo in evidenza come la rottura della Totalità avviene in forza dell’irruzione dell’altro, il cui volto, che è «rivelazione originaria dell’alterità di Altri», si impone come una esigenza assoluta, come l’istanza del prendersi cura di lui.
Questi tratti dell’identità dell’Infinito sono in perfetta sintonia con il volto del Dio biblico. In un mondo popolato di idoli, proiezione esclusiva dei bisogni umani, Israele coltiva una concezione diversa di Dio, la cui santità è sinonimo di alterità e di misericordia. I con- cetti ebraici di creazione e di alleanza mettono chiaramente in luce questa specificità. Se il primo segna infatti la netta distinzione tra il Creatore e la realtà creata, il secondo evidenzia il rapporto di radicale vicinanza e di infinita distanza che si instaura tra Jahve e il suo popolo. Il Dio da cui l’uomo si era allontanato a seguito del peccato, si rifà vicino; ma il Dio vicino non cessa di proclamarsi un Dio lontano, altro, inaccessibile; un Dio che non deve essere raffigurato né chiamato per nome ( Esodo, 20, 4-7).
In Gesù di Nazareth questa rivelazione del Dio vicino e lontano, presente e assente si rende pienamente manifesta. L’abbassamento di Dio, che inizia nel suo farsi «carne» prendendo su di sé la condizione umana, culmina nel mistero della croce, in cui ha luogo un radicale capovolgimento dell’immagine divina. Il Figlio di Dio — come si legge nell’inno della Lettera ai Filippesi di san Paolo — «pur essendo nella condizione di Dio… svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo... facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (2, 6-8). La kénosis (svuotamento) a cui si allude in questo passo, che è la manifestazione dell’annichilimento e della totale impotenza, diviene paradossalmente la «cifra» di come l’idea di Infinito può venire radicalmente incarnata; qui si dà infatti il pieno riconoscimento dell’alterità e la piena adesione ad essa. Il Dio che muore sulla croce è — come ricordava Dietrich Bonhoeffer — l’essere-totalmente-per-gli-altri: è, in definitiva, il Dio Amore.
Applicata alla realtà del mistero di Dio la categoria di Infinito costituisce dunque l’antidoto nei confronti delle tentazioni del dogmatismo e del fondamentalismo. Essa, mentre libera l’immagine di Dio da qualsiasi forma idolatrica, sollecita a fare dell’incontro con l’altro e della sua incondizionata accoglienza un imperativo morale assoluto e ineludibile.