Corriere della Sera - La Lettura
Centomila anni fa siamo diventati creativi
Tre saggi cercano di fare il punto sull’esplosione — biologica e culturale — della curiosità, che è una facoltà propria dell’uomo e di nessun altro animale, e che è alla base dei processi evolutivi. Merito della dieta? Dell’ambiente? Della capacità di socializzazione? Forse un po’ di tutto. Ma il mistero non è ancora risolto
Why? Si intitola così il libro, appena pubblicato, di Mario Livio, un astrofisico americano. Ed è proprio il saperci chiedere« Perché?» che ci rende uomini (gli scimpanzé non si fanno domande al di là di quello che osservano). E la curiosità — che è solo nostra e di nessun altro animale — deve avere qualcosa a che fare con l’evoluzione.
Ma che cosa? Di preciso non lo sappiamo e per quanto la curiosità sia la base della scienza e del sapere scientifico, le conoscenze che abbiamo sul perché del nostro essere curiosi sono ancora rudimentali. Come mai sul luogo di un incidente si radunano di colpo tante persone anche solo per vedere (o meglio per curiosare)? E perché i peggiori crimini diventano occasione di spettacolo per giornali e televisione che fra l’altro sono sempre molto seguiti? Cosa c’è nel nostro cervello che ci fa essere curiosi?
Qui la scienza non ci aiuta (almeno finora); sappiamo solo che dipende dalle cellule nervose che popolano la corteccia cerebrale; queste, a parte dialogare fra loro, a volte fanno partire reazioni a catena fra migliaia di neuroni che si attivano in modo piuttosto imprevedibile. Tutto qua? Pare proprio di sì, per ora delle basi biologiche della curiosità sappiamo davvero pochino, peccato perché dall’essere curiosi dipende quello che chiamiamo creatività (l’innata tendenza dell’uomo a essere originale o, se preferite, l’istintivo amore per la novità). Senza creatività, non ci sarebbe nessuna forma di arte, dal teatro alla pittura, alla scultura, alla musica.
Si pensava che l’impulso creativo fosse emerso 10 mila anni fa ma Edward Wilson nel suo libro appena pubblicato The Origins of Creativity lo fa risalire a più di 100 mila, all’inizio della storia dell’uomo moderno. Chissà che le basi biologiche della creatività non siano state messe proprio allora; nei millenni a seguire il cervello dei nostri antenati ha subito varie trasformazioni e — forse mosso dal desiderio di bellezza e nel tentativo di ricreare le meraviglie che lo circondavano — è stato capace di quelle manifestazioni che oggi chiamiamo arte.
Ma ci sono voluti tre milioni di anni perché il cervello dei nostri antenati aumentasse di dimensioni passando dai 400 centimetri cubici — più o meno il cervello di uno scimpanzé — ai 600 dell’Homo ha- bilis fino ai 900 del nostro antenato più diretto di un milione di anni fa, Homo erectus, e ai 1.300 dell’Homo sapiens e mettere così le basi per poter comunicare.
Questo succedeva attorno ai falò dei primi accampamenti dove le persone si riunivano per chiacchierare (il gossip, la forma più diffusa di curiosare sulle abitudini e sui comportamenti degli altri dev’essere nato allora) ma anche per stabilire status sociali e poi per creare alleanze. E gli scimpanzé intanto? Con loro abbiamo in comune il 98 per cento dei geni, ecco perché si è partiti dagli scimpanzé a cercare l’origine della creatività; ma non era la strada giusta. E pensare che gli scimpanzé possono avere un quoziente intellettivo anche molto alto, ricordano sequenze di numeri più in fretta e meglio di quanto possiamo fare noi, e devono avere una memoria di ferro per sapere sempre dove e come muoversi evitando i predatori. Gli scimpanzé però non sanno decidere cosa faranno domani e nemmeno possono prevedere cosa succederà da qui a qualche giorno. Gli uomini viaggiano da sempre (almeno con la fantasia) nel tempo e nello spazio inventandosi scenari sulle prime inverosimili che non di rado poi però si verificano. Perché questa differenza? E perché il nostro cervello è cresciuto tanto rispetto a quello degli scimpanzé?
Ci sono molte teorie, dalla dieta all’ambiente, al saper socializzare di più e meglio degli altri animali, agli effetti dell’evoluzione, ma nessuna ci aiuta davvero a capire cosa sia successo. Per analogia potremmo paragonare la spinta all’innovazione che abbiamo dentro di noi, a quello che è successo nei millenni con l’evoluzione; la nostra capacità di essere creativi dipenderebbe in qualche modo da modificazioni successive della struttura e della funzione del cervello sotto la spinta dell’ambiente e della società che cambia. Un po’ quello che è successo al genoma: mutazioni successive verificatesi per caso in pochi individui finivano per diffondersi rapidamente a popolazioni intere (solo quando si trattava di mutazioni vantaggiose alla specie, s’intende).
Wilson per quanto convinto che all’origine della creatività si arrivi integrando conoscenze di antropologia, biologia evolutiva, neurobiologia e paleontologia non riesce nemmeno lui, a dispetto del titolo del suo libro, a dire una parola definitiva
sull’origine della creatività e allora ci vengono in aiuto Anthony Brandt e David Eagleman con un altro libro, The Runaway
Species, un libro fatto di esempi che vanno dall’ingegneria alla scienza, al design, alle arti figurative, alla musica, che ci permettono di risalire alle radici del pensiero creativo fatto, sembra, di tre attività mentali che si riassumono nella capacità di piegare, rompere e mescolare.
Come è possibile? Basta pensare, secondo questi autori, a come Albert Einstein fu capace di piegare l’universo alle sue teorie, o al fatto che rompere potrebbe anche voler dire frammentare e ricomporre come fece Picasso con Guernica, e che la grande musica mescola brani e melodie. Ma chi sa davvero piegare, rompere e mescolare in modo più o meno integrato? Sono per lo più cervelli «inquieti», annoiati dai soliti input di una vita monotona, che cominciano a chiedersi «cosa c’è lì fuori?», fuori dalla mia routine, dalle cose che faccio di solito, dalle persone che frequento. Questa attività è propria di un gruppo speciale di neuroni che gli uomini hanno e gli animali di solito no; sono i neuroni «della percezione» ma per essere creativi fino in fondo serve dell’altro, i neuroni «dell’azione» capaci di trasformare una buona idea in qualcosa che poi succederà davvero.
La neuroscienza della creatività però si ferma qui, nessuno dei tre libri che avrebbero voluto chiarire le basi biologiche ci è riuscito davvero. E nemmeno sappiamo perché la creatività porti certe persone speciali a farsi domande del tutto astratte (la gravità per Newton e l’evoluzione per Darwin ad esempio) e altri a trovare soluzioni a problemi pratici (Frederick Sanger che ha inventato il modo di sequenziare il Dna), oppure a fare tutte e due le cose insieme (Wilson racconta che Einstein abbia progettato anche frigoriferi e macchine fotografiche). E altri ancora a prendere vantaggio da esperienze precedenti in modo però del tutto speciale. Brandt e Eagleman nel loro libro fanno vedere due immagini appaiate, quella di una maschera africana, antichissima, e il volto di una Demoiselles d’Avignon: sono identiche. Picasso una volta scrisse a un amico confidandogli di aver dipinto quel volto subito dopo una sua visita al museo d’arte africana; poi però cambiò versione, Les
Demoiselles le avrebbe finite prima di visitare il museo. Ma indagare su come si sia arrivati a certi capolavori e chi li abbia eventualmente ispirati non vuol dire mettere in discussione la creatività; per tornare a Picasso, chissà quanti altri avranno visto quel museo, nessuno però ha dipinto Les Demoiselles. Ciò che consente a noi quello che ai cavalli o ai coccodrilli non è permesso sono la speciale «flessibilità» della nostra mente e un’esigenza innata di originalità che non condividiamo con nessun altro animale e che la scuola, di solito, non incoraggia. Con poche eccezioni gli insegnanti, da noi come in qualunque altro Paese al mondo, preferiscono ragazzi diligenti piuttosto che creativi. Ma così tradiscono il più nobile dei loro compiti, quello di aiutare i cuccioli dell’uomo, per natura curiosi, a utilizzare fino in fondo il software sofisticatissimo della loro mente.
A dirla tutta questi tre libri letti insieme suscitano più domande e più dubbi di quanto non aiutino a capire con chiarezza le basi biologiche della creatività, ma rappresentano comunque un forte stimolo intellettuale. Specialmente di questi tempi, fatti di cambi del clima, diseguaglianze spaventose fra chi ha troppo e chi non ha nemmeno il necessario, e instabilità geopolitica; oggi — scrive Dan Jones su «Nature» — «servirebbe più che mai un supplemento di creatività anche solo perché l’uomo possa continuare ad abitare la Terra».