Corriere della Sera - La Lettura
Studi umanistici da riqualificare Gli Usa insegnano
In America i filosofi trovano lavoro più facilmente rispetto a fisici e matematici
Nell’ultimo decennio è un po’ diminuita. Ma la cosiddetta «disoccupazione intellettuale» è ancora una delle tante piaghe che affliggono i giovani italiani. In Germania l’80% dei laureati trova lavoro entro un anno dal diploma. Nei Paesi nordici, nel Regno Unito e in Francia la percentuale è sopra il 65%. In Italia è invece intorno al 50%. E ciò a dispetto del fatto che la quota di giovani italiani che si laureano ogni anno sia più bassa rispetto agli altri Paesi, persino nelle aree umanistiche. Certo, noi abbiamo il Mezzogiorno, dove i posti di lavoro disponibili, ad ogni livello, sono cronicamente scarsi. Seppure in maniera attenuata, il problema esiste però anche al Nord.
Come si spiega questo paradosso? Le cause sono molteplici e vengono da lontano. Come è noto, il nostro siste- ma produtt i vo è i mperniato s ul l e aziende medie e piccole. In larga misura i proprietari di queste aziende non hanno frequentato l’università, guardano con un certo sospetto ai giovani laureati. I quali sono a loro volta meno propensi a mettersi in proprio, ad esempio fondando nuove start-up. L’aspirazione al posto fisso, soprattutto nella pubblica amministrazione, è ancora molto forte. A causa dei vincoli di bilancio, il nostro apparato statale ha però drasticamente tagliato le assunzioni nell’ultimo decennio. Le università ci mettono poi del loro. Molti percorsi di studio sono poco «professionalizzanti», ossia scarsamente coerenti con le richieste del mercato.
La riforma dei cicli (il cosiddetto 3 più 2) ha un po’ migliorato le cose. Secondo AlmaLaurea (che fornisce dati campionari più rosei e più aggiornati rispetto a Eurostat, ma non compara- tivi) i tassi di occupazione dei laureati triennali che scelgono di non proseguire sono intorno al 70%, misurati a un anno dal diploma. Sembrerebbe un chiaro successo della riforma. Una percentuale molto alta di triennalisti si iscrive però ai percorsi magistrali. Con il risultato che l’età media del laureato italiano che entra nel mercato del lavoro è a tutt’oggi più elevata rispetto agli altri Paesi. Detto altrimenti: chi «chiude» dopo il triennio entra prima e più facilmente rispetto a chi faceva il vecchio quadriennio; per chi non chiude e prosegue, l’ingresso avviene molto dopo. L’effetto netto è probabilmente negativo.
Vi sono ovviamente differenze molto marcate fra aree di studio. La probabilità di trovare lavoro è alta per i cosiddetti settori Stem (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica), media per i settori socio-economici, bassa
per i settori letterari (e psicologia). È la nota contrapposizione tra lauree «forti» e «deboli». Ma perché, esattamente, esiste questa differenza?
Le interpretazioni più comuni sono due. Le lauree forti sono più dure e impegnative, si dice, gli studenti devono lavorare molto di più rispetto a chi segue percorsi deboli e dunque escono più preparati. Poi c’è la richiesta del mercato, più interessato a tecnici, scienziati, informatici e così via piuttosto che a sociologi o filosofi. Si tratta di considerazioni plausibili e in parte fondate. Il deficit italiano in termini di giovani laureati è particolarmente marcato nelle aree Stem: le imprese si trovano a reclutare entro un bacino più ristretto, la competizione per i posti di lavoro è più bassa. Per quanto riguarda la qualità della preparazione, abbiamo due dati che suffragano la tesi secondo cui i laureati Stem tendono ad essere più bravi. Il primo è il voto medio di laurea, più alto rispetto agli altri settori. Il secondo è che all’area Stem si inscrivono studenti che hanno riportato, in media, voti più alti alla maturità. Sarebbe però sbagliato concludere che siano le facoltà Stem, in quanto tali, ad attrarre gli studenti migliori. La vera ragione è un’altra: numero chiuso e test di ammissione che selezionano sin dall’inizio i più bravi.
A parte alcune eccezioni (quasi tutte in area economico-aziendale) nelle facoltà non Stem il numero è «aperto»; e anche dove si fa il test, il numero di posti banditi è comunque alto e dunque la percentuale di ammessi include molti studenti con bassi voti di maturità e scarsa motivazione. Ciò si riflette poi sulla frequenza delle lezio- ni: a Medicina e Ingegneria frequenta il 90% degli iscritti, a Lettere meno del 50%. Nelle aree non Stem i fuori corso sono tanti, ci sono più studenti-lavoratori (occupazioni saltuarie) e lavoratori-studenti (studio nel dopo-lavoro). I docenti finiscono per adeguarsi alle caratteristiche dell’utenza, abbassando gli standard. Si produce così un vero e proprio circolo vizioso. I percorsi più lontani dalle richieste del mercato indeboliscono la qualità della formazione; le imprese che assumono restano deluse e s’ingenera così la convinzione che gli studi umanistici e sociali non siano utili.
L’avvocato del diavolo potrebbe dire: è proprio vero, all’economia quel tipo di preparazione non serve. Ma non è così, o almeno non lo è necessariamente. Le statistiche segnalano infatti che negli altri Paesi (e soprattutto in quelli anglosassoni) non esistono grossi divari. Ad esempio, secondo un recente studio della Higher Education Statistics Agency americana, i filosofi hanno più probabilità d’impiego dei fisici e dei matematici; gli scienziati sociali le stesse probabilità degli informatici; i laureati in lingue le stesse dei biologi. E, per finire in controcorrente, i laureati in mass communication and documentation hanno maggiori chance occupazionali di quelli in
engineering and technology. Un vantaggio delle lauree in discipline umanistiche e sociali è che, se ben organizzate, formano giovani con competenze plastiche e flessibili (i dati della visualizzazione mostrano che anche in Italia questi giovani riescono a collocarsi in vari settori). L’avvocato del diavolo potrebbe ancora ribattere: ma in Italia sfornate troppi laureati in discipline non Stem. In realtà ne sforniamo meno che in Francia, Usa o Gran Bretagna, anche se il deficit è più contenuto r i s petto a l l e di s c i pl i ne Stem. Ma il vero problema non è l’eccesso di offerta, bensì il circolo vizioso sopra illustrato.
Il rapporto fra università e mondo del lavoro va ripensato. In certi contesti territoriali e nei settori non Stem tale rapporto è pressoché inesistente, bisogna iniziare da zero. Per competere con le altre «economie della conoscenza», l’Italia deve mettersi a correre. Devono farlo i docenti, gli studenti, la burocrazia universitaria e, non ultime, le stesse imprese.