Corriere della Sera - La Lettura
António Lobo Antunes «Sono stato un codardo»
Lo scrittore portoghese apre la porta di casa (e del cuore ) a «la Lettura». La vita? «Non è altro che la ricerca di strategie per sfuggire alla depressione». Il passato? «Non mi posso perdonare quello che non ho fatto al tempo di Salazar. Sono andato a c
Quando la chiacchierata sta per finire e lui si distrae osservando dalla sua casa piena di luce e libri il profilo di Lisbona che sfuma nel tramonto, la voce gli si spezza in una parola irta di consonanti: « Desgosto ». Significa dolore e disgusto insieme e la pronuncia alterando con un raschio le nasali che ritmano la morbida lingua del Portogallo e battendosi la mano sul petto, violentemente, come per attribuirsi quel sentimento.
Perché disgusto? Disgusto verso cosa? Discutevamo del nesso politicacultura oggi…
«Perché pensavo a me stesso quand’ero un ragazzo e sono stato un codardo. Tuttora non mi perdono quello che non ho fatto tra il liceo e l’università. Ero un codardo, mentre tanti miei coetanei combattevano la dittatura e alcuni sparivano o erano uccisi. Io avevo paura e mi tenevo al riparo, protetto dal nome della mia famiglia aristocratica. Paura della polizia politica, della tortura, dei campi di concentramento. Ero un codardo, e me ne rendevo conto. Ho dovuto andare in guerra per guadagnarmi il rispetto di me stesso. Sono arrivato in Africa e mi sono offerto per cose che non voglio dire… La guerra è orribile, bestiale: in battaglia ho visto ufficiali cagarsi addosso dalla paura. Si uccideva e si moriva. Ho trovato pace, ma l’ho pagata cara. Mi porto dietro molte ferite interiori e una mezza sordità da esplosioni di mortaio».
È passato molto tempo da quando António Lobo Antunes era il diciottenne inerte e vigliacco del suo racconto, eppure non smette di tormentarsi per ciò che non è stato capace di fare nella stagione di Salazar. Al punto da dover sfidare se stesso nell’ultimo conflitto coloniale, in Angola, per sentirsi riscattato. Ecco i fantasmi. La vergogna. Il tarlo di chi non riesce a dimenticare e perciò resta eternamente un reduce. Ne parla senza il timore di umiliarsi, come se ricorresse alla prassi psicoanalitica del «regredire per progredire» e scavasse nei ricordi più remoti per ritrovare le ragioni per rispettarsi. Ovvio che sia così, perché è stato medico psichiatra prima di dedicarsi totalmente alla scrittura, imponendosi subito fra gli autori più importanti d’Europa.
Sta per uscire in Italia un altro suo libro, Non è mezzanotte chi vuole. Stavolta non evoca la guerra do ultramar, il Vietnam portoghese, ma nell’addio alla casa dell’infanzia la memoria dei protagonisti s’incrocia in un potente gioco polifonico che richiama quella che in psicoanalisi si definisce terapia della famiglia.
«È curioso, ma non ricordo quel libro. Non rileggo mai i miei libri e ho comunque la sensazione che ci sia un continuum in ciò che ho scritto. Mi scuso se non ne parlo. Mi basterebbe solo che la gente ci ritrovasse dentro quella che Céline chiamava “la mia piccola musica”. Un qualcosa che costruisco con grande fatica, lavorando 10-12 ore al giorno (il mio amico Jorge Amado non voleva crederci), nello sforzo di non tradire la voce, l’entità che mi detta i romanzi. E cerco di non cullarmi troppo nelle memorie remote».
Forse perché rifugiarsi nel passato è tipico della depressione, dei vecchi? E lei ha quasi 76 anni…
«Secondo me l’incipit del Vangelo di Giovanni andrebbe cambiato. Anziché “in principio era il verbo” dovrebbe esserci “in principio era la depressione”. La vita non è altro che la ricerca di strategie per sfuggire alla depressione, che in realtà è la prospettiva della morte. Vale in particolare per chi conta gli anni ed è ossessionato dalle cronologie. Io invece le scompongo. Socrate diceva che il passato non esiste. Per me è così. Credo che viviamo sempre lo stesso interminabile presente. Bisognerebbe abolire il calendario».
È un po’ la metafora della circolarità del tempo su cui fa leva Thomas Eliot nei «Quattro quartetti», per cui tutto è atemporale, compresente.
«In quel caso tutto è molto diverso da ciò che intendo io. Lui viveva questo concetto con la testa, io con le viscere. Se Eliot fosse una donna avrei difficoltà a toccarla, perché non avrebbe amato il sesso. Capisco però che a qualcuno Eliot piaccia».
Torniamo alla psicoanalisi: che opinione ne ha? Per qualcuno avrebbe influenzato la sua opera.
«Ho avuto una formazione medica e mi sono specializzato in psichiatria. Ho fatto, tra Lisbona e Londra, quella che si chiamava analisi didattica. Ricordo uno psichiatra famoso, che teneva delle sessioni presentandoci ogni sabato un paziente con il quale parlava davanti a noi di cose banali. Poi il paziente usciva dall’aula e lui ne ricostruiva ad alta voce traumi e sofferenze mentali. Infine entrava un infermiere che leggeva la cartella clinica di quell’uomo e tutto era coerente con la descrizione che avevamo ascoltato. Io restavo a bocca aperta e mi dicevo: anch’io voglio essere uno stregone».
Dunque apprezzava quelle capacità?
«Sì, ma presto cambiai opinione. La Società portoghese di psicoanalisi era molto chiusa e prevedeva continue supervisioni che entravano nella sfera più privata. C’era una rigida gerarchia, come i gradi dell’esercito. E bisognava essere fedeli alla teoria freudiana, verso la quale ero molto critico. Per me, come dissero a Vienna di Freud quando presentò i saggi sull’isteria, quelle erano favole scientifiche. Era l’intero armamentario, l’impianto generale, a non sembrarmi solido».
Condivideva i tempi, quasi sempre lunghissimi, della terapia?
«No. E non sopportavo le relazioni di potere. Con il mio analista era uno scontro continuo. Gli dicevo: abbiamo finito, lasciami andare. Lui replicava: no, perché tu non ti sottometti. E io: non mi sottometto perché sono più intelligente di te. Ho avuto la fortuna che il presidente della Società di psicoanalisi mi aveva in simpatia e mi fece concludere il percorso — intanto ero andato e tornato dall’Angola come tenente medico — associandomi tra i membri effettivi. Ero il più giovane e fu in quel momento che dissi: ora me ne vado, ho già avuto quattro anni di guerra, non ho più nessuna lotta da fare».
Ne aveva un’altra, di lotta: voleva scrivere, no?
«Sentivo che ero pieno di libri, incinto. Stranamente Freud ha parlato tanto
«Ho fatto quattro anni di guerra; ho sfidato il mio analista — io che sono psichiatra; ma c’era ancora una battaglia da fare: sentivo di essere incinto di
libri, scrivendo sono diventato padre»