Corriere della Sera - La Lettura
Una povera ragazza di paese: si chiama Maria
Centinaia, forse migliaia di volte compare in dipinti, affreschi, immagini, statue; dà il nome a un numero infinito di chiese, e a un numero altrettanto infinito di musicisti ha ispirato arie, melodie, cantici, inni. E migliaia, probabilmente milioni di volte viene invocata, chiamata in soccorso, vista apparire, sorridere o piangere dentro a grotte, rosai, tra le fronde di alberi, o anche dentro gli specchi di casa. Ma tutte queste moltiplicazioni di visioni, raffigurazioni, invocazioni, invece di avvicinarcela, rendercela famigliare, l’hanno resa fissa e inaccessibile, distante e sconosciuta, impene- trabile come chi non è mai stato davvero vivo. È Maria, la Madonna, la Vergine, la Madre di Cristo di cui sappiamo molto e pochissimo, pur avendola vista in chiese e musei, cappelle e cimiteri, capitelli, crocicchi di strade e altari casalinghi nella sua rappresentazione più frequente, e cioè perfetta in viso, lo sguardo basso, il sorriso addolorato, il manto azzurro, con o senza bambino in braccio, con o senza serpente sotto i piedi. Nel suo nuovo libro Lei Maria Pia Veladiano ha tentato un’operazione audace: di indurci, cioè, a dimenticare dipinti e monumenti, inni e immaginette, grotte bene- dette e rovi fioriti fuori stagione per farci scoprire Maria nella sua (possibile) verità di povera ragazza di paese cui è toccato un destino infinitamente più grande di lei, di gioia straordinaria e di altrettanto straordinaria sofferenza. Operazione che, in pittura, in musica, in scultura è riuscita ad alcuni tra i più grandi. In letteratura si può dire che senz’altro sia riuscita alla scrittrice vicentina. La narrazione è, infatti, poetica e suggestiva, con richiami, è ovvio, alle Scritture, però mai didascalica, mai fideistica, ma nemmeno mai dolciastra, tale da rendere la protagonista — che si racconta in prima persona — sorprendentemente, intensamente reale.
La voce di Maria risuona ora grave, ora lieve, tenera a volte, drammatica altre; e ripercorre la sua avventura da quel fatidico primo incontro con l’angelo fino allo strazio sul monte di Gerusalemme. Aggiunge al Vangelo, raccontando di Giuseppe, molto di più che padre putativo, degli sconosciuti anni della prima infanzia di Gesù, degli amici, dei parenti, dei beati tempi in cui la sua vita era quella di una mamma normale, più fortunata di altre, perché bello, buono, intelligente e ridente come il figlio suo non ce n’era un altro. Una mamma normale, non fosse stato per quella paura sempre presente nel fondo, molto più tormentosa dell’apprensione che tutte le madri nutrono per i figli, paura legata alla profezia dell’angelo che aveva parlato, per lei, di spada nel cuore. Paura, però, forse ancora più che dell’arcana predizione di dolore, dei protagonisti senza nome che si muovono intorno al figlio: dei potenti prepotenti, dei politici rimestanti, della folla, aggressiva e invidiosa, minacciosa e violenta, banderuola capace di chiamarlo messia un giorno e quello dopo non voler ricordare più nemmeno il suo nome. Qua e là sembra sconfinare, insomma, nel presente la narrazione.