Corriere della Sera - La Lettura
Le nozze d’oro di Caproni con il suo controcaproni
Quando nel 1991 uscì postumo Res amissa, l’ultimo libro di Giorgio Caproni, si potevano subito trovare alcuni versi per la moglie di straordinario significato retrospettivo, come un autentico testamento poetico: «Mia rosa sempre in cima/ ai miei pensieri...// Mia rima sempre in me battente...». La poesia di cui fanno parte era stata scritta tra il 1987 e il 1988 Per l’onomastico di Rina, battezzata Rosa, come indicato dal titolo, e l’autore volle esplicitamente che fosse posta in apertura della raccolta (il cui curatore era Giorgio Agamben), col valore complessivo di una dedica. Se si pensa che alla moglie viene assegnato qui un primato non solo esistenziale o tematico, ma d’ispirazione e d’ideazione poetica (la sua presenza coincide infatti con la musica stessa del verso), si potrà forse intendere che l’intera opera di Caproni debba essere letta anzitutto sotto il segno di Rina.
A quest’altezza il sodalizio, anche poetico, con la moglie durava giusto da cinquant’anni. I primi componimenti che le vengono dedicati appartengono infatti alla fine degli anni Trenta. Dunque nozze d’oro valide anche per la fedeltà poetica. Eppure questa fedeltà non era stata sempre così esclusiva o così evidente. Anzi, il primato di Rina era stato a lungo conteso da altre figure femminili, prime fra tutte Olga Franzoni, la giovane fidanzata morta prematuramente di setticemia nel 1936 (che stenderà la sua ombra ben addentro la storia poetica caproniana), e tanto più la madre del poeta, l’Annina a cui è consacrato Il seme del piangere (1959), il libro forse più bello. Di fatto, il destino di RinaRosa appare inverso rispetto a quello toccato alla Lina di Saba, sotto la cui costellazione nacque la stagione più alta del poeta triestino, quella di Trieste e una donna, ma che di lì a poco, però, sarebbe uscita per sempre dal Canzoniere.
Questa lunga vicenda di poesia si può seguire per intero in una bella antologia di Caproni, Amore com’è ferito il secolo. Poesie e lettere alla moglie, che l’editore Manni ha deciso opportunamente di ristampare a poco più di dieci anni dalla prima edizione. Anche grazie ai commenti di Stefano Verdino, che ne è il curatore, il rapporto tra il poeta e la sua musa ispiratrice si rivela qui in tutta la sua importanza esistenziale e, indissolubilmente, poetica (da segnalare anche la riflessione conclusiva di Vincenzo Ostuni). «Le poesie per Rina — spiega infatti Verdino — sono una sorta di segnaletica intermittente e costante durata esattamente cinquant’anni, dal ’37 all’88; sono un po’ come i sassolini che segnano un sicuro sentiero, mentre ci si inoltra in una foresta». E, davvero, seguendo il sentiero di queste poesie si possono fare alcune belle scoperte, o per lo meno compiere con precisione alcune verifiche che riguardano la poesia di Caproni nel suo complesso: l’avvicendamento delle stagioni e delle latitudini psicologiche e conoscitive del poeta (segnate dallo spartiacque decisivo della guerra), gli sviluppi della ricerca espressiva, rispetto a cui la figura della moglie sembra avere un ruolo di catalizzatore (sintomatico il caso di una poesia anticipatrice come L’ascensore, una delle sue migliori in assoluto), ma anche, più di tutto, la peculiare funzione poetica di Rina, che all’interno del canzoniere caproniano, di contro al progressivo mancamento della realtà, appare sempre più garante di presenza, attenzione, amore, vitalità. Se la poesia di Caproni procede, con tutte le contraddizioni e i paradossi che l’affermazione poetica di per sé comporta, verso la negazione, allora Rina rappresenta, anche di contro e malgrado il poeta, la negazione di quella negazione.
Tra le poesie più tarde si trova ad esempio (siamo già nella fase più apodittica e sentenziosa): «Senza di te un albero/ non sarebbe più un albero./ Nulla senza di te/ sarebbe quello che è»; o ancora: «Se il mondo prende colore/ e vita, lo devo a te, amore...». Ma in fondo il poeta qui non fa che riconoscere a pieno quanto era già implicito nelle liriche più antiche, come volesse mettere agli atti il debito di tutta una vita. Se il cammino di Caproni è sempre più quello di chi riconosce come verità non soltanto personale quella dello spaesamento, dell’espropriazione, del congedo (con una sua parola fondamentale), già nelle prime poesie Rina viene rappresentata invece come forza creaturale, e dunque come immediatezza, radice, sensualità, gentilezza, fierezza, pulizia morale, presenza.
Non a caso fin da subito viene associata per endiadi alla natura e al paesaggio del suo luogo natale, l’Alta Val Trebbia, che a sua volta anche il poeta amò moltissimo («il tuo paese/ di sassi rossi», la «tua Trebbia»). Quando poi la luce dei primi idilli, per altro già incrinata, si spegnerà per ripresentarsi in quella specie di idillio capovolto che è la poesia del Caproni maggiore, la figura di Rina verrà messa ancor più a fuoco nel suo valore di orientamento verso la vita, di possibilità altra e diversa. Solo in rari momenti viene accomunata dal poeta alla propria disperazione. Se infatti l’io poetico di Caproni guarda verso l’inesistenza, la moglie è invece colei, come vien detto altrove, che possiede «l’arte d’esistere». Riprendendo il titolo di una sezione di Res amissa, allora, si dovrà forse riconoscere che il vero contro
in realtà, è lei.