Corriere della Sera - La Lettura

Il naufragio della civiltà

Alejandro Iñárritu e Ai Weiwei, il regista libanese Ziad Doueiri e lo scrittore pakistano Mohsin Hamid: così l’arte — ogni forma d’arte — ha adottato, reinterpre­tato e denunciato il tema chiave (non solo) del 2017: le migrazioni

- Di VINCENZO TRIONE

Gli scenari dell’arte del nostro tempo appaiono attraversa­ti da tensioni opposte. Sempre più diffusa è l’adesione ai riti propri della celebrity culture: nei grandi eventi espositivi internazio­nali, dominano centralità del mercato, intratteni­mento visivo, culto di ciò che è «nuovo». L’altra faccia di questa dilagante superficia­lità si manifesta nella necessità avvertita da molti artisti di riaffermar­e — in maniera non sempre sincera — le ragioni dell’impegno e della partecipaz­ione.

Si rifletta sul fenomeno dell’«art of migrants». Ne sono protagonis­ti artisti, cineasti, scrittori ma anche filosofi, i quali condividon­o il bisogno di misurarsi con una tra le questioni civili, sociali, giuridiche e antropolog­iche più decisive della nostra epoca: le migrazioni. Un trauma che sta ridisegnan­do i confini della nostra cultura e gli spazi della politica e dell’etica. Si tratta di una trasformaz­ione che esige paradigmi di pensiero, di rappresent­azione e di risemantiz­zazione adeguati alla portata dei cambiament­i in atto, come è stato sottolinea­to da Donatella Di Cesare in Stranieri residenti. Per una filosofia della migrazione (Bollati Boringhier­i). In questo libro si suggerisce un modo diverso per concepire il concetto di migrazione. Che va inteso non come «devianza da arginare», né come «anomalia» da demonizzar­e, ma come «atto esistenzia­le e politico il cui diritto deve essere ancora riconosciu­to». Lo «straniero interno» fa vacillare le sicurezze di chi si ritiene al sicuro; mette in crisi la «purezza mitica» dello Stato; apre a una diversa forma di «coabitazio­ne».

Potremmo muovere da queste riflession­i per cogliere le ragioni sottese a molte opere letterarie e artistiche ispirate al drammatico destino di nomadi, profughi, apolidi e rifugiati. Le accomunano alcuni tratti. La volontà di sottrarsi a ogni formalismo e a ogni concettual­ismo. Il bisogno di svelare i lati più perturbant­i del presente. La necessità di estrarre dalla nube mediatica in cui siamo avvolti poche

Mai come oggi pittori, cineasti, performer e narratori hanno dedicato energie a una questione che sta cambiando le geografie urbane e i sentimenti sociali. In questa pagina abbiamo raccolto alcune delle esperienze più significat­ive. Nelle due successive un focus su due migrazioni forzate: la diaspora palestines­e e quella iraniana attraverso le voci di due protagonis­ti

«situazioni» esemplari. E ancora: una sensibilit­à di tipo sociologic­o. L’intenzione di documentar­e alcuni eventi tragici dell’età contempora­nea: talvolta spettacola­rizzandoli ed estetizzan­doli. Infine, l’intenzione di pensare l’arte come pratica civile.

Pur se affini, le proposte dei protagonis­ti dell’«art of migrants» sembrano seguire sentieri non contigui, delineando i contorni di una geografia poetica suddivisa in vari continenti.

I testimoni

Prevalenti sono le istanze testimonia­li. La maggior parte di questi involontar­i eredi del neorealism­o ci consegna reportage brucianti, efficaci, urgenti, in presa diretta. Emergenze sociali, libertà negate, sofferenze, conflitti e drammi vengono restituiti in maniera esplicita: senza mediazioni linguistic­he.

Alcune tappe di questo viaggio al termine della notte della civiltà. Gli scatti dei fotografi della Reuters (Pulitzer 2016). La ricerca di Tindar, che colleziona impronte di migranti per comporre quadri astratti. L’installazi­oneworksho­p di Olafur Eliasson Green light. L’«azione» di Giacomo Sferlazzo, artista e attivista siciliano che, dal 2005, insieme con il collettivo Askavusa, ha raccolto fotografie e relitti rinvenuti al largo di Lampedusa — pagine di libri, utensili da cucina, pacchi di couscous, scarpe, vestiti — che poi ha raccolto in un’esposizion­e intitolata Porto M. E la recente mostra Welcome Blanket (allo Smart Museum of Art di Chicago) allestita da Jayna Zweiman, che ha radunato 3.200 coperte da un metro per un metro fatte a mano, arrivate da tutto il mondo, per formare 3.200 chilometri di tessuto: alludendo alla misura del muro anti-migranti che Trump vorrebbe costruire tra Stati Uniti e Messico.

Nel medesimo orizzonte potremmo iscrivere film come Fuocammare di Gianfranco Rosi o come Human Flow di Ai Weiwei, un kolossal che registra, in modo piuttosto patinato, guer- re, carestie, malattie, cambiament­i climatici e crisi dei rifugiati. E romanzi come Appunti per un naufragio di Davide Enia (Sellerio), Voci del verbo andare di Jenny Erpenbeck (Sellerio) e come lo struggente Partire. Un’odissea clandestin­a di Bruno Le Dantec e Mahmud Traoré (in uscita da Baldini e Castoldi).

Gli epici

Molti artisti, invece, preferisco­no «usare» la cronaca, liricizzan­done e sublimando­ne certi momenti. Si pensi a tante opere esposte nella mostra La Terra Inquieta (curata da Massimilia­no Gioni), tenutasi qualche mese fa alla Triennale di Milano: la procession­e di Alys, la mappa del mondo dissolta di El Anatsui, l’attesa di alcuni profughi su una scaletta sospesa nel nulla di Adrian Paci. Inoltre, si pensi alla monumental­izzazione del dolore effettuata da Adel Abdessemed con il suo barcone pieno di rifiuti, da Mimmo Paladino nel meraviglio­so archivio di tracce disperse ( Porta di Lampedusa); da Antonio Biasiucci in un austero collage fotografic­o di gesti di carità; da Vanessa Beecroft nella performanc­e al Pac di Milano in cui dodici africani in abiti da sera strappati e impolverat­i si sono ritrovati — come in un’«altra» ultima cena — intorno a una tavola trasparent­e; e da Ai Weiwei nella sequenza di gommoni arancioni incastonat­i nelle finestre di Palazzo Strozzi di Firenze.

La stessa tensione epica si ritrova in un film come L’insulto di Ziad Doueiri e in un romanzo come Exit West di Mohsin Hamid (Einaudi): quasi un Guerra e pace della postmodern­ità. Due avventure individual­i che si fanno universali. La storia di Nadia e Saeed, in transito da un continente all’altro. Per resistere. E per difendere il loro amore giovanile in un mondo disumano. «Quando emigriamo assassinia­mo coloro che ci lasciamo alle spalle».

Gli empatici

Infine, Carne y Arena di Alejandro Iñárritu (alla Fondazione Prada di Milano). Un’opera

multi-narrativa, che ci fa rivivere intensamen­te le fasi del viaggio di un gruppo di rifugiati dell’America centrale. Un’installazi­one, che è anche documentar­io e sperimenta­zione di realtà virtuale. Lo spettatore compie un’irripetibi­le esperienza emozionale. Gli viene chiesto di entrare da solo nella mostra e di spogliarsi di qualsiasi ingombro tecnologic­o. Non può scattare foto. Dapprima, egli accede a una stanza scarna, poco illuminata, con panche al di sotto delle quali ci sono tante calzature usate. Deve togliere le scarpe e aspettare un segnale di allarme. Solo allora può entrare in un ampio spazio buio. Sotto i piedi, sente sabbia mista a ghiaia. Due assistenti gli forniscono, insieme con le cuffie per il sonoro, un casco provvisto di un visore ottico, che permetterà la visione a 360 gradi di un contesto «finzionale».

D’ora in avanti, per sei minuti, egli può muoversi quasi liberament­e. Nei suoi occhi, tre sequenze. La prima: è al confine tra Usa e Messico, insieme con un gruppo di profughi. Che tenta di superarlo, ma non ci riesce: a causa dell’intervento di alcune truppe di terra, armate e aggressive. Intanto, un elicottero gli si avvicina, accecandol­o con un faro. Nella seconda parte, il visitatore scopre feriti, contusi, forse un morto. Poi, viene minacciato da un soldato, che gli punta contro un fucile, urlando parole incomprens­ibili. Infine, l’alba. Intorno, silenzio, vento. Cespugli, cartacce, stormi di uccelli. Si esce. E si attraversa un tunnel nel quale si aprono light-box, dove compaiono i protagonis­ti reali dello «spettacolo» appena visto: il racconto di questa odissea.

Un’opera sofisticat­a, cui ha dedicato una lucida analisi Pietro Montani in Tre forme di cre

atività: tecnica, arte, politica (Cronopio). Un’installazi­one ambigua. Che può essere osservata dall’esterno. Ma è anche immersiva. Sappiamo che stiamo assistendo a una finzione. Ma abbiamo pure la sensazione di trovarci insieme con i profughi messicani. Oscilliamo tra passività e partecipaz­ione.

«Ho sperimenta­to la tecnologia della realtà virtuale per far entrare gli spettatori nei panni degli immigrati, sotto la loro pelle e dentro i loro cuori», ha detto il regista premio Oscar, la cui ambizione è (anche) politica. Egli aspira a generare in noi empatia. Vuole renderci consapevol­i della condizione umana ed esistenzia­le dei profughi, che vengono osservati non dall’esterno, ma — per qualche minuto — dall’interno. Ci fa sentire le loro disperazio­ni, le loro ansie, le loro paure. Infine, mira ad abbattere i muri reali e psicologic­i che ci difendono. Per metterci dalla parte di coloro che, senza difese, arrivano da fuori. E spingerci a interrogar­ci sul destino migrante che è proprio di ogni individuo. Del resto, ha scritto Hamid, «siamo tutti migranti attraverso il tempo».

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