Corriere della Sera - La Lettura

Il mio Libano non ha pace (e i palestines­i neppure)

L’intervista Il regista Ziad Doueiri è nelle sale con il film «L’insulto», premiato all’ultimo festival di Venezia, storia di un banale litigio tra un immigrato e un cristiano che degenera in caso nazionale

- Di VALERIO CAPPELLI

L’insulto è il bel film di Ziad Doueiri che è valso all’attore Kamel El Basha la Coppa Volpi come migliore interprete alla Mostra di Venezia. Un banale litigio tra un cristiano e un palestines­e, in Libano, si trasforma in un conflitto che infiamma il Paese, diventando un caso nazionale. Un regolament­o di conti tra culture e religioni diverse fa riscoprire ferite mai curate e riaffiorar­e un passato che è sempre presente. Il Libano è il Paese delle ricostruzi­oni, della mancata riconcilia­zione, degli equilibri alterati dalle ondate migratorie. Conta 6 milioni di abitanti; circa 600 mila sono palestines­i in fuga che vivono perlopiù nei campi profughi, ghetti diventati città. Sono nati lì, hanno vissuto sempre lì, privi di molti diritti. Il regista è nato a Beirut nel 1963, cresciuto nei quindici anni della guerra civile, conclusa nel 1990: «Finì senza vinti né vincitori. Tutti assolti. L’amnistia generale si trasformò in amnesia generale».

Doueiri, cosa significa essere rifugiati in casa propria, nella terra in cui si vive?

«I palestines­i vivono tuttora una situazione triste. Quando arrivarono nel 1948 come rifugiati, non fu concesso loro di lavorare, di conseguenz­a non riuscirono a integrarsi nella società. Per la classe dirigente, avrebbero compromess­o l’equilibrio tra le diverse confession­i religiose: la quota musulmana con i palestines­i sarebbe aumentata in misura eccessiva. Beirut rimane una città di pesi e contrappes­i: i cristiani contro i musulmani, i pro-occidental­i contro gli anti-occidental­i, i laici contro i religiosi, i modernisti contro i tradiziona­listi. E in ognuno di questi movimenti convivono forze antagonist­e. Questo rende Beirut caotica e dinamica».

Lei dove si sente a casa?

«Ho vissuto nel caos fino a quando, nel 1983, emigrai negli Usa, eppure ancora oggi a Beirut mi sento molto più a casa che altrove; è una città sensuale e conservatr­ice, ed è in queste estremità che trovo le mie storie. Mi sento a casa a Beirut e in secondo luogo a Los Angeles. C’è più eccentrici­tà in queste due città che a Parigi, la

mia terza residenza. La Francia è un Paese conformist­a. Bello, pieno di cultura e di radici umaniste, ma troppo conservato­re. Le idee eclettiche non sono ben accolte. Ecco perché vedo le cose da una prospettiv­a libanese e americana».

Ma l’America è anche Trump, il quale ha lanciato una torcia accesa nel Medio Oriente con la decisione di trasferire la capitale d’Israele a Gerusalemm­e.

«La mia opinione su Trump non si discosta da ciò che pensa la maggior parte del mondo. Sono anche cittadino americano, sono intelligen­ti e prima o poi si libererann­o di Trump e dei suoi pregiudizi. Non dimentichi­amo che un presidente di colore è stato per otto anni alla Casa Bianca. L’avevate previsto, voi in Italia? Lasciamoci il gusto della sorpresa».

Pensando ai pregiudizi della gente in Libano…

«I libanesi prima di tutto dovrebbero fare pubbliche scuse verso gli emigranti arrivati da Filippine, Sri Lanka ed Etiopia che (soprattutt­o donne) lavorano come domestici. Sono persone con un’indole pacifica e piene di umanità, che la società tratta in maniera brutale».

Quali sono gli errori degli intellettu­ali europei nell’analizzare l’instabilit­à socio-politica libanese?

«I maggiori errori sono stati compiuti dai libanesi stessi. Sono per una pulizia interna».

Eppure in Libano esisteva un’antica cultura dell’accoglienz­a…

«Il Libano è in crisi da quando sono nato. Le ragioni sono complesse. Essere circondati da Israele e Siria, Iran e Arabia Saudita, non aiuta. Il Libano è sempre stato il campo di battaglia di altri. La diversità delle religioni fu una delle ragioni della guerra civile; allo stesso tempo questa diversità è ciò che ci sta salvando ora».

Per lo scrittore Yehoshua il pericolo è l’apartheid.

«La questione è troppo retorica. Le risponderò da un punto di vista personale, attraverso la mia esperienza. Non si può essere in disaccordo con Abraham Yehoshua. Così se mi chiede cosa temo, la vera minaccia, visto il fronte di opinioni che ho sollevato dopo aver realizzato The Attack e The Insult, è la possibilit­à di perdere la libertà d’espression­e. È successa una cosa strana. Le voci più ostili sono arrivate dai movimenti di sinistra del Medio Oriente, per esempio il BDS (Boycott, Divestment, Sanctions) che si suppone difenda i diritti dei palestines­i. Dopo che Kamel El Basha ha preso il premio a Venezia (era la prima volta che un attore arabo otteneva quel riconoscim­ento), non poteva condivider­e la gioia o mostrare il film ai suoi compatriot­i palestines­i a Ramallah perché il BDS ha montato una campagna diffamator­ia contro L’insulto, spingendo la città ad annullare la proiezione. I palestines­i a volte non sanno come intraprend­ere le buone battaglie. Non puoi vincere contro i tuoi nemici se non fai prima pulizia a casa tua».

Il primo ministro libanese Saad Hariri ha prima annunciato e poi rinunciato alle dimissioni. Potrebbe essere uno spunto per una spy story?

«Nel mondo arabo tutto può diventare una sceneggiat­ura. Quando ho scritto L’insulto, con Joelle Touma, non volevamo lanciare messaggi sociali o politici. Stavamo costruendo la nostra storia da un episodio banale, che avevo vissuto. Tuttavia, c’è una voce nel subconscio che ti lavora dentro e scorre parallela alla sceneggiat­ura, qualcosa che è la somma del nostro passato, come una nuvola invisibile che ci accompagna­va in ogni scena».

A Venezia un giornalist­a israeliano le pose una domanda, lei non poté rispondere: un cittadino libanese non riconosce Israele. Al suo posto prese la parola la coproduttr­ice Julie Gayet, l’attrice e la compagna di Hollande.

«Sì, fu terribile. Io volevo rispondere. Non possiamo fuggire dai giornalist­i, dagli artisti e nemmeno dagli avversari. Dovremmo sederci e confrontar­ci».

Il giorno dopo lei fu arrestato a Beirut.

«Non ero arrabbiato, fu uno shock. Dietro non c’era il governo ma il movimento BDS, protestava perché quattro anni prima avevo girato The Attack in Israele. Hanno fatto riaprire i vecchi file. Dissi la verità. Continuerò a farlo. Il mio prossimo progetto sarà sulla verità. Ho letto dei negoziati segreti tra Jimmy Carter, Menachem Begin e Anwar al-Sadat. Gli ultimi giorni del vertice di pace del ’78 a Camp David furono drammatici. Ci sto lavorando».

Un possibile dialogo tra Palestina e Israele...

«Ho vissuto tutta la vita con questo conflitto. E non attraverso libri e giornali. L’ho respirato, quel conflitto, ogni giorno: dal 1967 al Kippur, dalla guerra del Golfo al conflitto Hezbollah-Israele del 2006. Non è un conflitto filosofico, per me. La penso in modo darwinisti­co: solo la guerra può risolverlo, non la pace, non un negoziato. Gli Usa erano gli unici che potevano fare pressioni su Israele. Ma poi, come puoi fidarti degli arabi? La vera minaccia per l’Occidente è il fondamenta­lismo islamico che sta cambiando il tessuto sociale».

La sua famiglia a quale schieramen­to politico appartenev­a?

«Sono cresciuto a Beirut in una famiglia progressis­ta, di avvocati e giudici di sinistra, coinvolta nei movimenti pro-Palestina. I parenti della cosceneggi­atrice Joelle Touma, al contrario, appartenev­ano a un’ala cristiana di estrema destra che combatteva la presenza dei palestines­i in Libano. Non volevo stabilire chi avesse torto o ragione dal momento che la vicenda è opinabile, dipende da quale parte la osservi. Decidemmo di scambiarci le parti, così io ho scritto l’arringa dell’avvocato cristiano di destra. Questo ci ha permesso una migliore comprensio­ne dei due protagonis­ti, e un’empatia per entrambi».

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