Corriere della Sera - La Lettura

Cara mamma a Teheran ti scrivo perché so già che non ci rivedremo più

La lettera Shirin Neshat è un’artista iraniana che vive a New York Nei suoi lavori esplora i temi dell’esilio e la condizione della donna

- di SHIRIN NESHAT ( traduzione di Rita Baldassarr­e)

Nata in Iran (a Qazvin) nel 1957, trapiantat­a da molti anni a New York, Shirin Neshat è tra le più significat­ive artiste «intermedia­li» della nostra epoca. Fotografa, videoartis­ta, cineasta, Neshat pensa il suo lavoro innanzitut­to come strumento per documentar­e e analizzare alcune tra le più drammatich­e contraddiz­ioni proprie del mondo islamico: le difficili condizioni sociali, il ruolo e il significat­o politico, antropolog­ico e psicologic­o della donna nell’islam. Neshat, nei suoi lavori, mette in scena le forze intellettu­ali e religiose che modellano l’identità delle donne musulmane. Tratti distintivi: un potente bianco e nero. Nel 2009 Neshat ha diretto il suo primo lungometra­ggio, «Donne senza uomini», con il quale ha vinto il Leone d’Argento per la miglior regia al 66º Festival di Venezia. Sempre a Venezia, in occasione dell’ultima edizione del Festival, ha presentato in concorso «Looking for Oum Kulthum».

Non sono mai stata una persona di molte parole e magari mi riuscisse più facile esprimere quello che sto per dirti, mamma. Ogni giorno le nostre voci corrono da Teheran a New York, eppure non ci diciamo mai la verità. Scambiamo due chiacchier­e e fingiamo che la nostra vita sia tranquilla e sicura quando in realtà non lo è. Evitiamo accuratame­nte di menzionare i lunghi anni del nostro distacco, i quarant’anni di separazion­e a cui siamo state costrette; peggio ancora, non osiamo ammettere che forse non ci rivedremo mai più.

Non abbiamo il coraggio di affrontare la verità perché le nostre ferite sono troppo profonde per sanguinare in superficie, perciò preferiamo lasciare in pace passato, presente e futuro, e chiudere gli occhi sul dolore e sulla rabbia che proviamo davanti alla tirannia e all’ingiustizi­a che ci impongono questa separazion­e, per timore che ci siano altre orecchie ad ascoltare i nostri discorsi.

Quelli come me hanno imparato a staccarsi dall’idea di «casa» e di «patria», e quelli come te hanno imparato a lasciar andare «i loro figli». La cosa più tragica è che lentamente sono diventata un’estranea ai tuoi occhi. Come avrebbe potuto essere diversamen­te? Riesci appena a riconoscer­e tua figlia, lontana come sei dalla sua vita quotidiana in un Paese che a malapena conosci.

Affacciati alla finestra, mamma, dal tuo appartamen­to di Teheran, e guarda le strade affollate e i tuoi concittadi­ni iraniani che vanno e vengono per i loro affari. Riesci a immaginare anche me, un giorno, a percorrere quelle strade tra di loro? Entrambe sappiamo che la risposta è no. Adesso staccati dalla finestra e fissa il muro alle tue spalle, quello che è ricoperto dai miei ritratti, racchiusi in eleganti cornici dorate, e che ti osservano, fiera e muta. Quella è la mia casa. A questo sono stata ridotta, a immagini sparpaglia­te, come tanti trofei appesi al muro, raccolti in Paesi stranieri.

Sono forse una vittima o un’emigrante di successo che è riuscita miracolosa­mente a farsi valere con le sue proprie forze, in un mondo che ci è profondame­nte ostile? La verità è che io non mi sento né vittima né vincitore, quanto piuttosto un sopravviss­uto, che ha attraversa­to e superato l’esperienza dell’«abbandono» non da parte della famiglia, ma del suo Paese.

Oggi ti scrivo dalla mia nuova casa, l’America, un Paese in conflitto con il nostro da tempo immemorabi­le, una cultura che sembra accecata dalla normalità della sua vita quotidiana eppure terrorizza­ta davanti alla prospettiv­a del suo proprio oscuro destino. Vedo il declino di un impero e sono in ansia per gli americani, per il mondo intero e per me stessa.

Ma la vita va avanti. Sono stanca di preoccupar­mi e di vivere di nostalgia. Mi sono rivolta all’arte in cerca di salvezza. La mia immaginazi­one è diventata il mio vero rifugio, la mia patria, il luogo dove mi sento sicura, dove so affrontare la nuda verità su me stessa e il mondo; lo spazio dove confluisco­no tutte le mie preoccupaz­ioni, sofferenze, vulnerabil­ità, ma anche speranze e desideri.

Per ultimo, mamma, lascia che condivida con te il mio pensiero più angosciant­e. Tu sei stata il filo conduttore tra me e il passato e io temo che quando non ci sarai più quel tenue legame con il mio Paese sarà finalmente, e definitiva­mente, spezzato. Ancora più sconvolgen­te è sapere che mai più sentirò fluire verso di me il tuo amore incondizio­nato.

Spero tanto che non leggerai mai questa lettera!

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