Corriere della Sera - La Lettura
Un pastore errante a Napoli Il Willem Dafoe di Castellucci
Interpretazioni Il regista ripropone la novella di Nathaniel Hawthorne. Ma rispetto alla messa in scena di sei anni fa cambia tutto. A cominciare dall’interprete, che s’è spogliato del glorioso passato cinematografico per rivestirsi di umiltà
Devoto alla novella di Nathaniel Hawthorne, Romeo Castellucci nel 2011 mise in scena Il velo nero del pastore. In un’intervista disse di aver tagliato ogni rapporto con il racconto, d’«una intensità impossibile, che non sopporta la sublimazione della rappresentazione». Aggiungeva di aver abbandonato lo spettatore «davanti a una serie di immagini dove ogni interpretazione è legittima». Ne ricordiamo un vortice d’acqua, una macchina che avanza rombante e intimidente, una scatola di vetro con topolini bianchi (forse da L’uomo dei topi di Freud), una bandiera (come estensione del velo, ov ve r o ve s s i l l o d e l l ’ i mmaginar i o d i Hawthorne), una donna farfalla. La farfalla era una memoria, o una citazione dal racconto L’artista del bello: dove una farfalla meccanica, ma mobile, si pone come mediazione tra l’arte e la scienza o, diremmo oggi, tra l’allegoria ottocentesca e l’installazione propria di tanta arte contemporanea.
Lo spettacolo mi aveva lasciato perplesso, ma non quanto il precedente Sul concetto di volto nel figlio di Dio, del quale era uno sviluppo. A maggior ragione ne è uno sviluppo la nuova versione, The Minister’s Black Veil in scena ad Anversa nel dicembre 2016 e ora nel Museo Diocesano Donnaregina Vecchia di Napoli. Per lo spettacolo del 2011 citavo la rinuncia di Attilio Bertolucci a qualsivoglia interpretazione e il mero riassunto di Pietro Citati che nelle ultime righe di un suo articolo però diceva: «Hawthorne conosce soltanto la nostra esistenza nelle tenebre, non quella che forse condurremo nella grazia».
Qui le due parole, tenebra e grazia, accostate, potrebbero essere un principio di analisi. Ma il mio articolo lo concludevo perplesso di fronte alle troppe immagini, in specie l’ultima: «A sipario chiuso, è la più indisponente (ovvero insignificante): un asse con nove lampadine che si fulminano una dopo l’altra. Segnalano la fine dell’evento? O a essere menzognere sono le confessioni, falsi sono gli svelamenti, filistea l’idea stessa di quell’obolo/merce che di fatto è uno spettacolo, una spettacolo come reiterata prova d’identità?». Ed eccola, a Napoli, ancora una volta, la reiterata prova d’identità. Ma oggi dobbiamo meglio dire: di accanimento, di ossessione.
Castellucci torna su Hawthorne, su Il velo nero del pastore, perché di fronte al silenzio non si arrende: nel senso che, ci dice, esso è parte della cosa almeno quanto la parola, se non di più. E da cosa ci viene detto il «di più», il silente «di più», se non dalla parola? Il Museo Diocesano era una chiesa già ristrutturata nel XIV secolo. Ora le sue vertiginose volte gotiche sono nude e mute, come debbono essere: quasi una scenografia predisposta per lo spettacolo. In fondo, al centro, un bianco altare; e di fronte all’altare, più vicino alle panche per gli spettatori, che un tempo furono i fedeli, c’è un pulpito. Un uomo alto e magro, con una tonaca nera, e con il volto coperto, avanza, si inchina davanti all’altare, si gira e comincia a leggere ma anche, quando scende tra noi, a dire.
Noi sappiamo che è Willem Dafoe, un grande attore di cinema, che negli ultimi quarant’anni ha lavorato con i maggiori registi di tutto il mondo. Ma in lui non v’è traccia del suo glorioso passato, non c’è che l’andatura, o la postura, di un «ministro della fede»; in lui non ci sono che umiltà e vibrazioni. Di fronte a quanto «messo in scena» da Castellucci, di fronte al suo gesto di abolizione (di cancellatura) di tutto ciò che sei anni fa aveva riempito il da lui stesso nominato «buco nero» (ciò che il ministro nasconde), ora non c’è che questa specie di breviario che ogni spettatore ha in mano; non ci sono che le parole di Claudia Castellucci, la sorella di Romeo, e la voce di Willem, fin dalle sillabe iniziali «fratello nostro».
Edgar Allan Poe, lettore tra i primi di Hawthorne, ne aveva riconosciuto «l’inventiva, la creazione, l’immaginazione, l’originalità» come tratti peculiari. Più tardi si ricredette: «Egli è peculiare, non originale». Sarà Herman Melville, nel 1850, a riconoscere come «dal Peccato originale, delle cui visite, in una forma piuttosto che in un’altra, nessuna mente che rifletta con intensità non è sempre né del tutto libera». Questa, per Melville, era l’essenza della poetica di uno scrittore che più tardi divenne suo amico. E sarà un quasi discepolo come Henry James a decretarne la grandezza, ovvero a liberarlo da una facile etichetta di pessimista: «Il pessimismo consiste nell’avere idee e teorie morbosamente amare sulla natura umana; non nell’ abbandonarsi a fantasie tenebrose. Nulla prova che Hawthorne avesse tali dottrine o convinzioni; di certo nei diari non risuona mai la nota della depressione, della disperazione, della disposizione a svalutare la razza umana».
Nel 2002 Rick Moody ricostruirà quanto il rapporto tra i comuni avi, suoi e di Hawthorne (un’ava di Moody venne processata a Salem per stregoneria da John Hawthorne, bisnonno di Hawthorne), possa essere la «puritana» ragione del velo come metafora ossessiva: esso ricorre in una quantità di racconti: quel velo ci parla della colpa, della menzogna, del rimorso, del rancore. Come non pensare che questi sentimenti, o nodi, debbano essere oscurati? Come non radunarli sotto la voce «rimozione», ossia indicibilità?
Ma il Freud che ho più sopra nominato ci ricorda che tra medico e paziente c’è un lettino e che su quel lettino il paziente si distende proprio per, parlando, non mostrare il viso. È il punto in cui, in termini non freudiani ma antichi, «religiosi», Claudia e Romeo Castellucci questa volta osano l’ interpretazione. Qui inchiodano gli spettatori nel loro spettacolo« assoluto », tanto scabro quanto luminoso: «Hanno occhi e non vedono», disse il profeta Isaia parlando di quello sguardo che crede soltanto ai propri occhi. E poco dopo irrompe (ecco che le parole citate da Claudia sono il commento di Romeo Castellucci al «velo nero», commento cui né Melville né James né Moody si spinsero e che nel nostro tempo, proprio nel film Come in uno specchio, tentò il solo Ingmar Bergman): poco dopo irrompe la Lettera ai Corinzi. Dice l’apostolo Paolo: «Ora vediamo come in uno specchio,/ in maniera confusa;/ ma allora vedremo faccia a faccia./ Ora conosco in modo imperfetto,/ ma allora conoscerò perfettamente,/ come anche io sono conosciuto». Allora, dunque, in un tempo a venire; e ora, qui, in questa ex chiesa, in questo museo; in questo ex racconto, in questo teatro — finché il velo nero sarà necessario, finché sarà necessaria l’assenza a dirci della presenza.