Corriere della Sera - La Lettura
Ecco, qui ero una formichina sotto la diga dei giganti
Imprese Centodieci anni di progetti nel mondo vivono in un milione e 200 mila scatti, 700 mila digitalizzati: una selezione delle immagini di Salini Impregilo diventa un libro, ora, e a maggio una mostra a Milano
«Pakistan, ’70. Vede la foto? In quel cantiere io c’ero, è un mondo che torna» Franco Francescon era la matricola 60: laggiù ciascuno sapeva cosa fare
La gru emerge sullo sfondo. Si innalza oltre il tunnel, prima della lunga distesa di terra. Si distinguono delle figure umane. Piccole. Piccolissime. Quasi sovrastate dalla macchina. Se si guarda con attenzione si scorgono anche alcuni uomini all’interno del tunnel. Piccolissimi pure loro, in controluce: sull’impalcatura, a terra, alla guida di un mezzo. È impossibile scorgerne i volti.
«Mi si riapre un mondo. Quello dovrebbe essere l’ingresso di uno dei quattro tunnel, due per l’irrigazione e due per l’alimentazione della centrale idroelettrica». L’immagine (nella pagina accanto) è stata scattata nel 1970 nel cantiere della centrale di Tarbela, nel Pakistan nord-occidentale, dove il fiume Indo lascia la catena montuosa del Karakorum per entrare nella pianura che si estende per oltre mille chilometri fino all’Oceano Indiano.
A descrivere la fotografia a «la Lettura» è Franco Francescon, bellunese di Mel, nato ad Ancona nel 1943. Era arrivato a Tarbela a novembre del 1968 assunto da Impregilo, l’impresa italiana alla guida del consorzio europeo incaricato della costruzione del sistema di dighe, di una centrale idroelettrica in superficie e delle opere di canalizzazione necessarie all’impianto centrale. «Matricola numero 60», racconta. I lavori erano partiti a giugno di quell’anno. «Ho iniziato come assistente elettricista e quando a giugno del 1974 ho lasciato il Pakistan ero a capo di tutti gli impianti elettrici».
Il suo lavoro l’ha portato in giro per il mondo: «Ho iniziato nel centro della Nigeria a Kainji per 18 mesi. Il contratto da scapolo era di un anno. Ero partito a gennaio e non volevo tornare in gennaio per le ferie, così sono rimasto. Poi c’è stato il Pakistan, poi il Sud America, Yacyretá tra l’Argentina e il Paraguay, e ancora le Ande. Così per circa quindici anni».
L’immagine della centrale idroelettrica di Tarbela è un frammento di oltre 110 anni di storia e di storie narrate da 1 milione e 200 mila fotografie (di cui 700 mila digitalizzate) che compongono l’archivio di Salini Impregilo, gruppo industriale specializzato nella realizzazione di grandi opere complesse su scala internazionale. L’archivio riunisce i materiali delle singole imprese che nel corso degli anni sono confluite nella compagnia: gli archivi di Salini, Girola, Lodigiani, Impresit, Cogefar, Impregilo e quelli di molte altre compagnie che sono state assorbite. Una parte di questo patrimonio è confluita in un volume edito da Rizzoli, Cyclopica, e a maggio diventerà una mostra alla Triennale di Milano.
Sfogliando il libro si trovano le immagini in bianco e nero di opere colossali, disegnate per domare le acque, produrre energia, migliorare il trasporto di cose e persone. Strutture che sembrano relegare al margine la figura umana.
L’uomo però c’è sempre. A volte è solo un puntino alle prese con macchinari e strutture che lo sovrastano, ma è lui il centro focale delle fotografie e di quei progetti che mettono alla prova i limiti della natura e della tecnologia. I lavoratori sono ritratti sui carrelli e sulle impalcature, talvolta si mettono in posa davanti all’obbiettivo. I fotografi esplorano forme e geometrie, ma anche incontri tra realtà diverse. E dalle immagini emergono storie, tradizioni, persone.
Franco Francescon continua il racconto. Dalle sue parole emerge la consapevolezza che in quegli anni si trovava in mezzo a qualcosa di grandioso: «I disegni, i programmi sono lì sul tavolo e ognuno sa cosa deve fare. Ogni “formichina” sa che sta contribuendo a un’opera che è molto più grande di lei, e che deve arrivare in quel determinato giorno, in quel preciso momento, in quell’esatto punto per fare la sua parte».
La diga principale della centrale di Tarbela ha una lunghezza di cresta di quasi tre chilometri, che si snodano in un cantiere complesso e diversificato dove dal 1968 ai primi anni Ottanta si sono alternati fino a 45 mila lavoratori di 26 nazionalità: «espatriati», europei e americani, e pakistani, ingegneri e operai altamente specializzati, che hanno lavorato fianco a fianco ogni giorno, 24 ore su 24. «Iniziavamo alle 7 del lunedì mattina e finivamo alle 7 della domenica», continua Francescon. «Ventiquattro ore filate, con i cambi turni sul posto. La macchina non si poteva mai fermare». Questo aveva reso necessaria la costruzione di una fitta rete di strutture abitative e di servizi ausiliari. «Vivevamo in un villaggio, diviso in zona scapoli e zona famiglie». C’era un villaggio per il personale d’inquadramento, sia espatriato, sia pakistano. Cinquecento case per famiglie e seicento blocchi di alloggi per scapoli, una mensa, un ristorante, due circoli, una chiesa interconfessionale, un supermercato. Cinque villaggi per i lavoratori locali, con moschea, spaccio e impianti ricreativi. E ancora un ospedale, sei scuole (italiana, francese, tedesca e americana per gli espatriati, urdu e inglese per i locali). Francescon ha trascorso il primo anno di contratto in Pakistan nella zona dedicata agli scapoli. Poi si è sposato e la moglie Danila è ripartita con lui. Roberto, il loro primogenito, è nato proprio qui, nel 1971. Il contratto per gli sposati era di due anni, 22 mesi lavorativi e due di ferie, con viaggio e alloggio garantiti all’intera famiglia.
I villaggi di Tarbela non erano troppo diversi da quelli spuntati intorno ai can- tieri montani delle dighe italiane prima della Seconda guerra mondiale. Oppure in Egitto dove dal 1964 al 1969 l’impresa italiana partecipò al salvataggio dei Templi di Abu Simbel, smontati, stoccati, trasportati e ricostruiti 280 metri più all’interno e 65 metri più in alto per permettere di realizzare la diga di Assuan.
Le fotografie raccontano anche le storie delle comunità che si formano intorno ai cantieri e sui siti. «Il cantiere era cosparso da “hotel” formati da quattro murettini alti un metro con un po’ di sterpaglia e un focolare. Lì veniva preparato il tè. Poi un ragazzino partiva con una latta con dentro un po’ di brace e sopra la teiera e due tazzine che venivano sciacquate di volta in volta». Franco Francescon continua a pescare dalla memoria: «È stata un’esperienza grossissima, per le nostre abitudini di lavoro e per le nostre vite. Un’esplosione di tecnologia, di apprendistato per noi che venivamo da cantieri “normali”, ma anche di gestione e di incontro con un’altra cultura». Il momento di preghiera della squadra non poteva essere disturbato. «Ma se si doveva correre a risolvere un guasto, non c’erano esitazioni da parte di nessuno».
Dalle prime dighe degli anni Venti, le immagini del volume accompagnano i lettori fino alle opere più recenti in Etiopia e Sudafrica. Frammenti di vita sparsi nel tempo si presentano uno dopo l’altro. E pagina dopo pagina si coglie l’evoluzione della tecnologia. «In poco tempo ti senti obsoleto. Non è facile stare dietro a tutto quel cambiamento», conclude quel giovane elettricista ora in pensione. «Il calcestruzzo è sempre calcestruzzo. È il modo di lavorarlo che cambia. Ogni volta devi imparare tutto dall’inizio. E quello è stato il divertimento sommo».