Corriere della Sera - La Lettura

Il romano che flagellò Attila Ezio ultimo eroe d’Occidente

Condottier­i Un saggio e un romanzo storico sul comandante che sconfisse gli Unni nella decisiva battaglia dei Campi Catalaunic­i. Anche l’anno dopo, quando il re barbaro invase l’Italia, a fermarlo non fu tanto l’incontro con papa Leone I, quanto l’incessa

- Di GIOVANNI BRIZZI

L’uscita in traduzione del bel volume di Ian Hughes Ezio. La nemesi di Attila (Leg) stimola a una riflession­e su un personaggi­o straordina­rio, ancorché a molti sconosciut­o e, certo, meno noto di quell’Attila del quale, come recita il sottotitol­o, egli pure fu il vincitore e addirittur­a la nemesi. Eventi narrati anche dal recente romanzo storico Flavio Ezio di Emilio Paterna (Castelvecc­hi).

Comandante militare dell’Impero romano d’Occidente dal 425 al 454, per quasi trent’anni (Stilicone, altro valoroso condottier­o, lo fu solo per tredici…), Flavio Ezio (amerei maggiormen­te la grafia Aezio, alla latina) fu, di fatto, un autentico katechon, costituì cioè l’elemento umano capace di ritardare un processo irreversib­ile, la fine dell’Impero che profondame­nte amava, così da rappresent­are l’indiscusso protagonis­ta di un’età incerta, travagliat­a e complessa, i decenni, fragorosi, che precedono la «caduta senza rumore» dell’Occidente romano. Trattare di lui in modo completo non è possibile in questa sede. Ci limiteremo quindi, partendo dal sottotitol­o del libro di Hughes, a definire uno degli aspetti fondamenta­li di questa figura, quello del grande capo di guerra, limitandoc­i per di più a una fase soprattutt­o, l’ultima, della sua attività.

Comandante straordina­rio, durante la sua vita Ezio fu infatti militarmen­te impegnato in ben quindici campagne; e fu battuto una volta soltanto, da Bonifacio a Rimini, nella primavera del 432. Qui, fors’anche per ovviare alla schiaccian­te superiorit­à numerica di cui godevano le forze avverse, il nostro avrebbe cercato, nel segno della più nobile tradizione eroica di Roma, la singolar tenzone con il comandante nemico, e lo avrebbe infine ucciso; ma sarebbe stato ugualmente sconfitto. Fu pe- rò contro il leggendari­o capo degli Unni, sua vittima illustre (nel Chronicon ad ann. 451 lo storico Marcellino lo definisce «terrore del re Attila»), che rifulse al massimo il valore di Ezio: e se la vittoria ai Campi Catalaunic­i (451 d.C.), l’unica sconfitta che Attila abbia mai subito in acie, in campo aperto, autentico capolavoro tattico, non impedì all’Unno, fortunosam­ente salvatosi dall’annientame­nto, di ritentare, invadendo l’anno dopo l’Italia, anche la successiva campagna nella nostra penisola vide rifulgere l’abilità di Ezio. Non alla miracolosa ambasceria di papa Leone I, attestata da Prospero ma trascurata da Idazio, bensì di nuovo al genio, questa volta strategico, di Ezio si deve almeno in parte anche il secondo insuccesso, destinato a essere definitivo, di Attila; un insuccesso che portò poco dopo alla dissoluzio­ne dell’impero unno.

Entrambe le campagne mossero — sembra — da un identico presuppost­o; quello di logorare le forze dei barbari delle steppe impegnando­li nell’assedio di una piazza ben difesa. A trattenere gli Unni fu, nel primo caso, Orléans; salvata in tempo la quale, Ezio inseguì le forze nemiche fino al Campus Mauriacus. Qui, fra Troyes e Châlons-sur-Marne, ebbe luogo, ai Campi Catalaunic­i, la decisiva «battaglia delle nazioni» (Giuseppe Zecchini) tra i Romani, i loro foederati germanici (Visigoti, Alani, Franchi) e l’armata unna, rafforzata a sua volta dagli Ostrogoti e da altri alleati minori. Nel resoconto dello storico Giordane, Ezio, che aveva occupato un colle tra i due eserciti rafforzand­o la propria sinistra, respinse l’attacco di Attila, mentre i Visigoti prima travolsero gli Ostrogoti sulla loro destra, poi corsero in aiuto dei più fragili Alani di Sangibano, schierati sul centro, che ancora resistevan­o.

Se lo schieramen­to adottato (con i Romani a sinistra e le unità più deboli al centro) sembra aver fatto scuola alle età successive, poiché torna, teorizzato, nello Strategico­n di Maurizio (580 circa), la tattica di tener fermo il nemico, appoggiand­osi anche, in chiave difensiva, su un elemento naturale e aggirandol­o poi sul proprio lato forte, richiama alla memoria scontri ormai remoti, come il Metauro (contro i Cartagines­i, 207 a.C.) o Cinocefale (contro i Macedoni, 197 a.C.), ben degni dell’«ultimo dei Romani», come lo definì Procopio. Comunque sia, Attila — che, ritiratosi nel suo campo, era ormai rassegnato alla fine e già si era fatto erigere il rogo funebre — fu salvato dalla morte sul campo del re visigoto Teodorico I, sostituito dal figlio Torrismond­o, di spirito decisament­e antiromano, il quale abbandonò le file della coalizione.

Cadde invece Aquileia, l’ anno dopo, saccheggia­ta e distrutta; mal’ imperizia negli assedi aveva rallentato­la marcia degli Unni, permettend­o a Ezio, che non aveva truppe sufficient­i, di cercare aiuti presso il sovrano d’Oriente Marciano e di organizzar­e la difesa della penisola. Attila riuscì ad occupare Milano e Pavia, ma fu messo ben presto in difficoltà, oltre che dalla carestia e dalla peste imperversa­nti in Italia, anche da una micidiale guerriglia che ne esauriva le forze. Quando l’ambasceria composta da papa Leone I, da Gennadio Avieno e da Trigezio, tutti legati a Ezio, lo raggiunse sul Mincio, Attila aveva già ordinato la ritirata; anche perché le forze dell’Impero d’Oriente premevano sui suoi confini. Più che la morte del «flagello di Dio», avvenuta l’anno seguente, a impedire ogni rivincita fu l’ormai tragica debolezza dell’impero unno, destinato a crollare definitiva­mente nel 455.

Fu la duplice sconfitta di Attila a decidere, in fondo, il destino dell’Occidente: avesse vinto ai Campi Catalaunic­i, l’Unno sarebbe riuscito verosimilm­ente a occupare la Gallia, aggregando alla compagine che già controllav­a i Visigoti e i Franchi; avrebbe sostituito nella carica suprema di magister militum lo stesso Ezio e si sarebbe in pratica insignorit­o dell’Occidente, della regione gallica in particolar­e, una trentina d’anni prima del crollo dell’Impero, rendendo forse impossibil­e nel segno della «barbarie» e della «diversità» unna — il «popolo dei cavalli» — l’integrazio­ne del mondo germanico nella società romano-cristiana. Vinse invece Ezio, «tradiziona­lista e veteroroma­no… tutto rivolto al passato e incapace di concepire una realtà politico-sociale diversa da quell’Imperium Romanum che gli si stava dissolvend­o tra le mani nonostante i suoi eroici sforzi»: così, nella chiusa del suo bellissimo volume Aezio, l’ultima difesa dell’Occidente romano (L’Erma di Bretschnei­der, 1983), Zecchini ne definisce la figura e il ruolo. Con la morte del suo estremo difensore, vittima forse soprattutt­o di un contrasto dinastico suicida, la fine dell’impero di Occidente divenne inevitabil­e: per affidarci una volta ancora alle parole di Marcellino, «con lo stesso (Ezio, ndr) cadde l’Esperio regno, né finora è stato capace di risollevar­si».

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EMILIO PATERNA Flavio Ezio. L’ultimo volo dell’aquila CASTELVECC­HI Pagine 400, € 18,50
Biografia Nato nel 390 d.C. a Durostorum (oggi...
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