Corriere della Sera - La Lettura

Immensitad­e o infinità? E il celeste confine si fa ultimo orizzonte

- di DANIELE PICCINI

L’Infinito è un organismo tutto risonante: fatto di smarriment­i e ritorni su di sé del pensiero che «finge» e che in parte si spaura, in parte si abbandona, piacevolme­nte, all’idea di indefinito. Anche l’elaborazio­ne del testo è perciò una contesa per rendere indetermin­ata la lingua. Due gli autografi: quello più remoto di Napoli e quello di Visso, nelle Marche, che sfocia poi nei Versi del 1826, prima che l’idillio entri nei

Canti del 1831 e del 1835. Nella minuta napoletana (sopra) una correzione riguarda il verso 3: «Del celeste confine» è mutato in «De l’ultimo orizzonte», immagine che resta preferita. Un’incertezza grava poi in entrambi gli autografi sul verso 14: Immensità (in origine

Immensitad­e, con diversa sequenza delle parole nel verso) è corretta in Infinità. Con un ritorno indietro,

Immensità sarà recuperata nell’edizione 1835. In effetti l’aggettivo Infinito è già al verso 10. E poi l’indefinite­zza deve essere suggerita dagli snodi dell’organismo poetico, non tanto essere detta. Perciò «interminat­o/ Spazio» (ma in precedenza «un infinito/ Spazio») ai vv. 4-5 evolve nei Canti 1835 nel plurale «interminat­i/ Spazi». Nel testo tutto è conchiuso e insieme dilatato. Il fiato dei versi si prolunga (grazie a ritmo e collocazio­ni) a far sentire che nulla basta, di determinat­o, all’attesa dell’io. Il quale perde e trova se stesso, continuame­nte, tra minimale soffio d’essere e vastità immaginosa del pensiero.

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