Corriere della Sera - La Lettura
Immensitade o infinità? E il celeste confine si fa ultimo orizzonte
L’Infinito è un organismo tutto risonante: fatto di smarrimenti e ritorni su di sé del pensiero che «finge» e che in parte si spaura, in parte si abbandona, piacevolmente, all’idea di indefinito. Anche l’elaborazione del testo è perciò una contesa per rendere indeterminata la lingua. Due gli autografi: quello più remoto di Napoli e quello di Visso, nelle Marche, che sfocia poi nei Versi del 1826, prima che l’idillio entri nei
Canti del 1831 e del 1835. Nella minuta napoletana (sopra) una correzione riguarda il verso 3: «Del celeste confine» è mutato in «De l’ultimo orizzonte», immagine che resta preferita. Un’incertezza grava poi in entrambi gli autografi sul verso 14: Immensità (in origine
Immensitade, con diversa sequenza delle parole nel verso) è corretta in Infinità. Con un ritorno indietro,
Immensità sarà recuperata nell’edizione 1835. In effetti l’aggettivo Infinito è già al verso 10. E poi l’indefinitezza deve essere suggerita dagli snodi dell’organismo poetico, non tanto essere detta. Perciò «interminato/ Spazio» (ma in precedenza «un infinito/ Spazio») ai vv. 4-5 evolve nei Canti 1835 nel plurale «interminati/ Spazi». Nel testo tutto è conchiuso e insieme dilatato. Il fiato dei versi si prolunga (grazie a ritmo e collocazioni) a far sentire che nulla basta, di determinato, all’attesa dell’io. Il quale perde e trova se stesso, continuamente, tra minimale soffio d’essere e vastità immaginosa del pensiero.