Corriere della Sera - La Lettura
Gli artisti che hanno acceso la mia luce
Aprono Caravaggio (un classico) e Mijo Kovacic (una sorpresa). Chiudono Norman Rockwell (molto pop) e Reginald Marsh (pop fino al grottesco): l’uscita nelle sale de «La ruota delle meraviglie» di Woody Allen consente di ripercorrere «l’avventura della luc
Pagliacci e dragoni, ottovolanti e ruote panoramiche, giostre e piste da ballo. «Quando Woody Allen mi propose il nostro secondo film insieme, La ruota del
le meraviglie, non sapevo dove fosse Coney Island — confessa Vittorio Storaro, maestro della fotografia cinematografica, vincitore di tre Oscar —. Avevo letto la bellissima sceneggiatura. Lunghe scene, alcune con molte pagine di dialogo. Non sapevo come visualizzare la storia. Woody mi disse: “Vittorio, non preoccuparti. Vieni con me, facciamo un sopralluogo insieme a Brooklyn. Sono sicuro che un modo lo troveremo”. Poi mi sono ricordato di Norman Rockwell e dei suoi dipinti che hanno illustrato splendidamente il modo di vivere americano dal 1945 agli anni 50, lo stesso periodo del film. Ho pensato che poteva essere un buon punto di partenza».
Il 47esimo film scritto e diretto da Allen — in questi giorni nelle sale — conclude la cavalcata che «la Lettura» dedica all’arte di Storaro: l’emozione della pittura (i debiti e gli omaggi), la scrittura di un proprio personalissimo manuale di storia dell’arte (in questa pagina), la reinvenzione della luce.
Il viaggio parte da Giovinezza giovinezza (1969) di Franco Rossi, l’unico film da lui realizzato in bianco e nero, e da una fondamentale premessa: «Sul set c’è un solo direttore, il regista, e preferisco, per me, la qualifica americana di cinemato
grapher (“cinematografo”, in opposizione semantica a “fotografo”), ovvero colui che scrive di cinema». O che lo «illumina». «La cinematografia è il mio linguaggio, il mio modo di esprimermi: scrivere, con la luce, il movimento». Dunque,
Giovinezza giovinezza: «All’epoca venivo da anni di studio di fotografia e cinematografia, avevo lavorato come operatore alla macchina, e non ero assolutamente a conoscenza della storia della pittura». Terminate le riprese del film, durante una passeggiata con la giovane moglie, Storaro scopre
La vocazione di San Matteo, capolavoro di Caravaggio conservato nella chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma: «Rimasi senza fiato: nel segno di luce di un singolo dipinto c’era il racconto di una vita. Mi colpì la straordinaria visione di qualcosa che avevo cercato di mettere nelle scene del film: una separazione netta tra luce e ombra». Quel raggio di sole con cui Caravaggio divide la luce dall’oscurità spinge Storaro a cercare un pittore che invece le unisca. «Lo trovai in Johannes Vermeer, nei cui quadri la qualità della luce non è di estremo contrasto ma avvolgente, soffusa».
Non avendo ricevuto un’educazione tradizionale, Storaro ricorda di aver scoperto la pittura naïf prima dell’arte classica. «Lavoravo a un piccolissi-
mo film in Jugoslavia, quando ho conosciuto la pittura primitiva di Mijo Kovacic, autore di grandi dipinti su vetro dalla intensa potenza cromatica. Kovacic era un contadino, lavorava i campi, la sua era una pittura primitiva. Ma capace di emozionare attraverso il colore».
Con l’audacia selvatica ispirata alla natura e alle sue tonalità luminose e spesso contrastanti, prosegue Storaro, «l’arte naif è stata la mia prima insegnante del colore. Tant’è vero che, per il primo film a cui lavorai seguendo una ricerca in questa direzione, Strategia del ragno (1970), sottoposi a Bertolucci due tele di Antonio Ligabue, La volpe e La tigre, ancorché lui, da persona raffinata e colta quale era, fosse orientato verso un sofisticato Magritte».
Nel 1970 Storaro lavora anche sul set di Il conformista di Bertolucci, un film fortemente influenzato dalla riflessione sulla filosofia e la pittura. «L’immaginario artistico di Giorgio de Chirico (per la prima parte del film avevo guardato in particolare ai dipinti della serie Piazze d’Italia) e di Tamara de Lempicka sono stati i filtri attraverso cui costruire per immagini il personaggio di Marcello (Jean Louis Trintignant)». Storaro non dimentica anche alcuni incontri «molto forti». Come quando Giuseppe Patroni Griffi lo chiama per lavorare a Addio fratello crudele (1971), rielaborazione moderna di una tragedia elisabettiana, Peccato che fosse puttana di John Ford. «Un dramma di sangue e di vendetta, una bellissima storia d’amore dove però i due amanti sono fratello e sorella. Feci con Patroni Griffi alcuni sopralluoghi nel Castello di San Giorgio, a Mantova. Dove scoprii La camera degli sposi, il sublime capolavoro di Andrea Mantegna».
Storaro sospende il racconto, riflette, poi riprende: «A un certo punto dovetti fare i conti con la mia ignoranza. E pensai addirittura di abbandonare il lavoro e iscrivermi all’università. Poi, per tutta una serie di ragioni pratiche — inclusa mia moglie, incinta all’epoca del nostro secondo figlio, che mi spronava a darmi da fare — abbandonai il progetto. Per fortuna il cinema è una scuola straordinaria: permette di capire, approfondire, incontrare registi che mi hanno aiutato a capire cosa avevo bisogno di cercare e studiare nei libri, nei dipinti, nella vita. Il passo successivo è stato usare quella conoscenza nei film. Oggi penso che, in particolare in questi nostri tempi digitali, quel tipo di sapere sia molto, molto importante. È per questo che spingo i giovani cineasti a non abbandonare mai la ricerca».
Arrivare alla perfezione delle immagini ha richiesto una lunga serie di tappe. «Da un bianco e nero tremolante siamo passati a un ottimo bianco e nero senza sfarfallio; poi da un colore senza sfarfallio ma mediocre ai buoni risultati del nostro tempo. Certe volte abbiamo davanti a noi persino un colore in alta definizione perfetto. Ma se oggi accendendo una fotocamera digitale chiunque può vedere l’immagine, a fare la differenza può essere solo la conoscenza del significato, della simbologia, della psicologia del colore; sapere come muovere la luce, l’ombra e il colore in base alla storia. È questo il mio obiettivo: descrivere la storia del film attraverso la luce, creare una trama parallela alla principale, in modo che, attraverso essa e il colore, chiunque possa comprendere, consciamente e inconsciamente, la storia del film. Ho raccolto la mia personale interpretazione dell’universo delle immagini in tre volumi pubblicati ormai molti anni fa, Scrivere con la luce, che non sono solo un libro ma il progetto di una vita».
Un’idea esplicitata molto chiaramente dalle immagini dei titoli di testa di Ultimo tango a Pari
gi (1972): due dipinti di Francis Bacon che dilania i corpi e i volti di un uomo e una donna. «Nel film a dominare è l’arancio, un colore domestico che, unendo la passione, il sentimento e la coscienza, trasmette calore e si distacca nettamente dal tono azzurro della Parigi del Conformista» . Un giorno, ricorda Storaro, Bertolucci lo invita al Grand Palais di Parigi a vedere una mostra su Francis Bacon. «Sembrava che Bacon avesse ascoltato i nostri ragionamenti. Tra i dipinti ce n’era uno in particolare, il Trittico di Marzo, che sembrava il manifesto del film». Girando, sempre con Bertolucci, Novecento (1976), Storaro fa un’altra scoperta: « Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, che entra nella storia da protagonista, e non solo come sfondo dei titoli di testa. In quel periodo ebbi modo di conoscere anche la pittura del modenese Gino Covili: mi affascinò in particolare un dipinto di straordinaria bellezza, Discussione per la formazione della Cooperativa (1975), a cui mi ispirai per la scena della cena tra i contadini».
Nella prosecuzione del suo viaggio, Storaro ricorda l’incontro nel 1974 con il genio di Luca Ronconi. Che, dopo aver visto Il conformista di Bertolucci, lo chiama negli studi Rai per l’Orlando furioso, adattamento per la tv dello spettacolo che tanto successo aveva avuto in teatro. «Realizzò un allestimento incredibile, molto teatrale. Mi ricordai di una visita alla Galleria degli Uffizi di Firenze, dove mi avevano incantato l’inedita prospettiva e gli scorci vertiginosi della Battaglia di San Roma
no, l’unica tavola del meraviglioso trittico di Paolo Uccello rimasta in Italia (le altre due sono alla National Gallery di Londra e al Louvre di Parigi,
ndr) ». Anche Francis Ford Coppola vede Il conformi
sta e Ultimo tango a Parigi. E chiama Storaro. Lo arruola per Apocalypse Now (1979). «Caso volle — ricorda Storaro — che, in coincidenza con l’avvio delle riprese, ricevessi in regalo da un amico il libro di uno dei più importanti illustratori americani, Burne Hogarth, autore di una serie di fumetti dedicati a Tarzan, di cui ambienta le avventure in una sorta di meravigliosa giungla surrealista. Portai a Francis il libro per presentargli la visione di Hogarth, e un quadro di Henri Rousseau, L’in
cantatrice di serpenti ». La collaborazione con il regista americano frutta a Storaro il primo dei suoi tre Oscar. Due anni dopo riceve il secondo per Reds (1981) di Warren Beatty. Per il film del quale ricorda di avere preso spunto dal quadro di un anonimo russo conservato all’Hermitage di San Pietroburgo: La presa del Palazzo d’Inverno. A dominare il dipinto «è un raggio di luce che ho inserito in un’intera sequenza. Per Un sogno lun
go un giorno (1982), sempre di Coppola e ambientato in una Las Vegas interamente ricostruita in studio, mi sono ispirato invece ai cell, ovvero i singoli fotogrammi dipinti a mano su celluloide, dei film Disney. Da quelli della Bella addormentata
del bosco è scaturito il colore simbolico e filosofico del film, mentre la simbologia e i toni di La
dyhawke (1985) di Richard Donner sono il frutto di una visita alle Gallerie dell’Accademia di Venezia dove a riempirmi gli occhi di bellezza sono Le
storie di Sant’Orsola, un ciclo di nove teleri eseguiti dal Carpaccio, e soprattutto, dello stesso pittore, la tavola di San Giorgio e il drago, conservata nella Scuola di San Giorgio degli Schiavoni. Con- vinsi Donner a vestire interamente di nero il protagonista del film, Rutger Hauer (la Ladyhawke del titolo è invece Michelle Pfeiffer, ndr), spiegandogli che simboleggia un’armatura, uno scudo di protezione».
Nel 1988 Francis Ford Coppola, affiancato da George Lucas in veste di produttore, vuole Storaro sul set di Tucker - Un uomo e il suo sogno, biopic dedicato a Preston Tucker, geniale self-made man dell’industria americana del dopoguerra. «Francis immaginava delle ambientazioni ispirate a Norman Rockwell, gli proposi i Futuristi italiani — racconta ridendo —, ne avevo ammirato le opere due anni prima visitando la mostra Futuri
smo & Futurismi a Palazzo Grassi. Tucker del resto incarnava perfettamente quei concetti di rinnovamento, velocità e bellezza propri del movimento di Marinetti». Due anni dopo è di nuovo Warren Beatty a volerlo sul set. Il film è Dick Tracy (1990) e, questa volta, a dare l’ispirazione al maestro della luce è un esponente dell’Espressionismo tedesco, Otto Dix: «I suoi dipinti colpirono l’attenzione di Chester Gould, il fumettista di Dick
Tracy, ed è questa l’idea che portai a Beatty». Con il Piccolo Buddha (1993) di Bertolucci, che porterà a Storaro il terzo Oscar, sono dei teleri scoperti nel corso di un viaggio in Nepal e in Bhutan — teleri che illustrano la vita della divinità — a dargli l’idea per il film.
Con Woody Allen Storaro debutta nella cinematografia digitale sul set di Café Society (2016). Una collaborazione che ha rinnovato con La ruota
delle meraviglie (2017), in questi giorni nelle sale, e in continua evoluzione. «L’industria del cinema si muove verso un impiego sempre più diffuso dell’HDR, High Dynamic Range — sostiene convinto —, una tecnica nata per migliorare la qualità dei singoli pixel, con cui ogni luce, ogni ombra, ogni colore caldo o freddo viene amplificato. Una tecnica che tutti dovrebbero provare, in particolare i giovani registi. Ai quali dico: non abbiate paura del colore! Si ha paura solo quando non si conosce qualcosa. Per cui studiate, cercate il modo corretto di guardare la pittura, la fotografia, i film. Il buon cinema è una buona esperienza di apprendimento per tutti. Dovremmo cercare di sapere in modo consapevole cosa stiamo facendo. Certo, non si arriva mai al punto di sapere tutto. Io sto ancora imparando. E mi piace essere uno studente».