Corriere della Sera - La Lettura
Ibridi e ferini trasmigrano dall’Oriente in Occidente
In tutta la Commedia, l’unico essere che Dante designa esplicitamente come «mostro» è la bestia con dieci corna e sette teste vista nel Paradiso Terrestre («simile mostro visto ancor non fue», come si legge nel canto XXXII del Purgatorio). È un’immagine carica di significati allegorici che il poeta avrà sicuramente incontrato più di una volta nelle miniature dei manoscritti dell’Apocalisse che gli saranno capitati fra le mani. Tra tutte le fasi della storia occidentale, è nell’età gotica che la scienza dei mostri toccò apici insuperabili di fantasia e sottigliezza. Il catalogo dei mostri medievali è un’impresa impossibile. Ancora oggi, nel cinema come nei fumetti, rimaniamo debitori di quella straordinaria proliferazione di fantasie.
L’anagrafe dei mostri è infinita ma ci sono delle leggi fondamentali e ricorrenti nel tempo dalla remota antichità. La prima è la natura ferina del mostro. La presenza di parti umane non corregge, semmai accentua, la bestialità di un minotauro, di una sirena. Fortemente legato a questo primo aspetto è il carattere ibrido, composito del mostro. Un altro fatto storico, importantissimo, è il fatto che il mostro viaggia, seguendo una direzione fondamentale: da Oriente a Occidente. Furono i Greci a fare dell’India la matrice di ogni portento e minaccia vivente all’ordine naturale, come ha spiegato in un suo bellissimo lavoro di «mostrologia» quel geniale ed eruditissimo iconologo che fu Rudolf Wittkower (lo si può trovare in italiano nel volume Allegoria e migrazione dei simboli, Einaudi). Ma c’è un altro aspetto della questione sul quale vale la pena di riflettere.
Fino a un certo punto, le arti figurative e la letteratura procedono di pari passo, lavorando sugli stessi materiali fantastici e sulle stesse paure. Ma la descrizione verbale di un mostro richiede pur sempre una collaborazione attiva da parte del lettore per essere efficace. A partire da un numero limitato di parole, il «mostro scritto» viene continuamente creato e ricreato, a ogni atto di lettura. Proprio per questo, un eccesso di minuzia descrittiva è dannoso per lo scrittore di mostri, mentre non lo è affatto per il pittore o per il disegnatore. Più è povero ed eventualmente impreciso, più il linguaggio sarà capace di centrare quelli che Stephen King, per citare qualcuno che se ne intende, definisce i «punti di pressione fobica» del lettore.
Prendiamo quello che forse è il più prolifico scrittore di mostri della storia umana, H. P. Lovecraft. In genere, se andiamo ad analizzarli razionalmente, i mostri del grande scrittore americano appariranno un po’ ripetitivi e deludenti: ammassi vagamente gelatinosi e fosforescenti, guarniti di antenne e tentacoli, annidati in cantine e soffitte di vecchie case del New England. Però, ancora oggi ci caschiamo. Perché i mostri di Lovecraft sono fatti, essenzialmente, delle esclamazioni di orrore e disgusto che producono nel narratore e nei personaggi. Quando la vista dello scrittore non può sostenere ciò di cui parla, quando l’oggetto è troppo ripugnante per essere descritto, ecco che il lettore cade in trappola. È lui, come un bambino, a colorare il disegno appena accennato di quel mostro, frugando nelle proprie cantine e nelle proprie soffitte. Davvero non c’è nulla di più spaventoso di ciò che qualcuno ci costringe a immaginare per conto nostro. Come dice Dante, un mostro simile nessuno l’ha mai visto. Ahimè, lo vediamo solo noi, è proprio sotto il nostro letto che si è acquattato.