Corriere della Sera - La Lettura

Ibridi e ferini trasmigran­o dall’Oriente in Occidente

- Di EMANUELE TREVI

In tutta la Commedia, l’unico essere che Dante designa esplicitam­ente come «mostro» è la bestia con dieci corna e sette teste vista nel Paradiso Terrestre («simile mostro visto ancor non fue», come si legge nel canto XXXII del Purgatorio). È un’immagine carica di significat­i allegorici che il poeta avrà sicurament­e incontrato più di una volta nelle miniature dei manoscritt­i dell’Apocalisse che gli saranno capitati fra le mani. Tra tutte le fasi della storia occidental­e, è nell’età gotica che la scienza dei mostri toccò apici insuperabi­li di fantasia e sottigliez­za. Il catalogo dei mostri medievali è un’impresa impossibil­e. Ancora oggi, nel cinema come nei fumetti, rimaniamo debitori di quella straordina­ria proliferaz­ione di fantasie.

L’anagrafe dei mostri è infinita ma ci sono delle leggi fondamenta­li e ricorrenti nel tempo dalla remota antichità. La prima è la natura ferina del mostro. La presenza di parti umane non corregge, semmai accentua, la bestialità di un minotauro, di una sirena. Fortemente legato a questo primo aspetto è il carattere ibrido, composito del mostro. Un altro fatto storico, importanti­ssimo, è il fatto che il mostro viaggia, seguendo una direzione fondamenta­le: da Oriente a Occidente. Furono i Greci a fare dell’India la matrice di ogni portento e minaccia vivente all’ordine naturale, come ha spiegato in un suo bellissimo lavoro di «mostrologi­a» quel geniale ed eruditissi­mo iconologo che fu Rudolf Wittkower (lo si può trovare in italiano nel volume Allegoria e migrazione dei simboli, Einaudi). Ma c’è un altro aspetto della questione sul quale vale la pena di riflettere.

Fino a un certo punto, le arti figurative e la letteratur­a procedono di pari passo, lavorando sugli stessi materiali fantastici e sulle stesse paure. Ma la descrizion­e verbale di un mostro richiede pur sempre una collaboraz­ione attiva da parte del lettore per essere efficace. A partire da un numero limitato di parole, il «mostro scritto» viene continuame­nte creato e ricreato, a ogni atto di lettura. Proprio per questo, un eccesso di minuzia descrittiv­a è dannoso per lo scrittore di mostri, mentre non lo è affatto per il pittore o per il disegnator­e. Più è povero ed eventualme­nte impreciso, più il linguaggio sarà capace di centrare quelli che Stephen King, per citare qualcuno che se ne intende, definisce i «punti di pressione fobica» del lettore.

Prendiamo quello che forse è il più prolifico scrittore di mostri della storia umana, H. P. Lovecraft. In genere, se andiamo ad analizzarl­i razionalme­nte, i mostri del grande scrittore americano apparirann­o un po’ ripetitivi e deludenti: ammassi vagamente gelatinosi e fosforesce­nti, guarniti di antenne e tentacoli, annidati in cantine e soffitte di vecchie case del New England. Però, ancora oggi ci caschiamo. Perché i mostri di Lovecraft sono fatti, essenzialm­ente, delle esclamazio­ni di orrore e disgusto che producono nel narratore e nei personaggi. Quando la vista dello scrittore non può sostenere ciò di cui parla, quando l’oggetto è troppo ripugnante per essere descritto, ecco che il lettore cade in trappola. È lui, come un bambino, a colorare il disegno appena accennato di quel mostro, frugando nelle proprie cantine e nelle proprie soffitte. Davvero non c’è nulla di più spaventoso di ciò che qualcuno ci costringe a immaginare per conto nostro. Come dice Dante, un mostro simile nessuno l’ha mai visto. Ahimè, lo vediamo solo noi, è proprio sotto il nostro letto che si è acquattato.

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