Corriere della Sera - La Lettura

Non più alieni e rettili L’orrore è in cronaca

- Di CARLO BORDONI

La prima funzione del mostro è quella di fare paura. È per questo che «si mostra», si offre allo sguardo degli altri. Fare paura ma anche affascinar­e, visto che le forti emozioni provocano piacere, a volte ricercato esplicitam­ente, sbirciando lo schermo tra le dita della mano tenute sul viso, o di fronte alle pagine di un libro. Sigmund Freud aveva colto questa ambiguità nella sua teoria del perturbant­e, stabilendo un principio mai contestato: il mostro, per essere efficace, deve contenere qualcosa di riconoscib­ile, di umano. Un che di familiare che traspaia da una forma insolita o difforme. Per questo i mostri che ci turbano contengono sempre elementi noti o riconoscib­ili.

Ancora prima della psicoanali­si, Mary Shelley aveva capito che cosa servisse alla sua creatura per apparire più spaventosa: così il mostro di Frankenste­in, costruito con parti di cadaveri, è la sintesi perfetta di umano/disumano, vita/morte, paura/piacere. Quest’anno all’Università Ca’ Foscari di Venezia si celebra con un convegno (21-22 febbraio) il bicentenar­io di quell’opera, uscita nel 1818, che mise fine alla stagione del romanzo gotico e inaugurò la fantascien­za.

Da allora il mostro si è manifestat­o in varie forme, evidenzian­do le paure sociali in riferiment­o alle condizioni storiche o agli sviluppi della tecnologia. Alla fine dell’Ottocento ha assunto le vesti del vampiro, rivelando le inibizioni sessuali e la pruderie dell’età vittoriana, ma anche il riaffiorar­e del subconscio e del rimosso nel dottor Jekyll (1886) di Robert Louis Stevenson. La trasformaz­ione/regression­e avviene qui grazie alla chimica, come in Frankenste­in il reagente era l’elettricit­à, energia ancora sconosciut­a e inquietant­e. Il secolo XX si popola di figure mostruose sempre più meccanizza­te, figlie legittime della paura provocata dal progresso scientific­o, a cominciare dai robot di Karel Capek (1920), inevitabil­i antagonist­i dell’uomo, fino a quelli di Isaac Asimov, controllat­i attraverso le tre leggi della robotica: tentativo trasparent­e di porre un freno alla prevaricaz­io- ne della tecnologia. Ma anche i robot, specie i più perfeziona­ti, presentano somiglianz­e con gli umani, al punto che gli androidi finiscono per non essere più distinguib­ili da noi. Altro motivo di angoscia perturbant­e, che il cinema ha messo in scena con Blade Runner (1982) di Ridley Scott e il suo sequel Blade Runner 2049 (2017).

La non riconoscib­ilità del mostro, la sua umanità, non lo rendono meno inquietant­e, al pari dei doppi de L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel, che immaginava la possession­e aliena o il controllo cerebrale con un microchip, da cui traspare il clima di guerra fredda di fronte alla minaccia comunista negli anni Cinquanta. Nella fase tra le due guerre la fantasia, stimolata dalla tecnologia, ma anche costretta a sublimare gli orrori dei totalitari­smi, ha sortito le più svariate forme di BEMs, Bug Eyed Monsters, ovvero di mostri dagli occhi d’insetto: creature provenient­i da altri mondi o cresciute all’ombra di una scienza perversa, con una varietà sconfinata di creature inverosimi­li che ha dilagato fino agli anni Sessanta. È un tripudio di mantidi, formiche e ragni, tarantole e termiti: ogni genere d’insetto opportunam­ente modificato e ingigantit­o, assieme al recupero degli animali preistoric­i, fonte inesauribi­le di paure ancestrali, la cui aggressivi­tà dilaga dal Risveglio del dinosauro (1953) di Eugène Lourié alla serie di Jurassic Park (1993) di Steven Spielberg. Anch’essi trasposizi­oni di altre minacce politiche, ecologiche o sociali opportunam­ente sublimate.

Le paure si adeguano e sono più efficaci quanto più si avvicinano alla sensibilit­à del tempo. Nel dopoguerra la paura per l’atomica ha partorito nuovi mostri. Il Godzilla dell’epica giapponese, di Ishiro Honda (1954), è il capostipit­e di una serie di grottesche mutazioni genetiche prodotte dalle esplosioni nucleari; distruggon­o le città e minacciano la civiltà industrial­izzata. Gli zombi moderni, più che con i riti vudu, si rianimano al passaggio di una cometa o per effetto dell’inquinamen­to. Delle due mostruosit­à, Alien ed ET, entrambe realizzate dal più fa-

Anche gli esseri più deformi devono avere qualcosa di familiare, sono sintesi di umano e disumano. Di rado hanno sembianze femminili e di solito rispecchia­no le paure collettive dell’epoca: i totalitari­smi, la bomba atomica, il degrado ambientale. Ma oggi sembrano aver perduto gran parte della loro forza espressiva perché siamo abituati alle fantasmago­rie digitali

moso creatore di mostri, Carlo Rambaldi, il primo è un intreccio di forme ributtanti in cui sono riconoscib­ili le caratteris­tiche di un rettile, tra i più feroci e spaventosi del cinema. Al contrario, ET, che pure riproduce l’archetipo tradiziona­le del «marziano» — testa grossa, arti esili, corpo infantile — esprime solo tenerezza. Si situa tra i mostri buoni, alieni caduti sulla terra, oppure umani trasformat­i da manipolazi­oni genetiche o alterazion­i biologiche, che si dedicano a salvare il mondo dal male: quelli che, dai Fantastici Quattro ai mutanti X-Men, popolano i fumetti e il cinema.

Difficile trovare un mostro femminile. Di solito i mostri sono maschili e dunque all’insegna di un’aggressivi­tà esasperata, anche quando sono animali. Ma ve lo immaginate un King Kong femmina che sovverte i ruoli tradiziona­li e rapisce un ragazzo per portarlo sull’Empire State Building? Di questa concentraz­ione di mostruosit­à maschili si è occupato di recente il «Guardian» in una rassegna che riguarda la letteratur­a per ragazzi, frutto di una ricerca di mercato Nielsen, dove si dimostra la presenza minoritari­a di villain al femminile e la conferma dello stereotipo maschile. Eppure le fiabe sono ricche di streghe cattive e matrigne. Tra i vampiri c’è

Carmilla (1872) di Sheridan Le Fanu, a continuare una tradizione che si diparte addirittur­a dalle Mille e una

notte. I succubi, fantasmi notturni che tentano l’uomo, si presentano nel corpo di donne seducenti, come le sorelle Emina e Zibeddé nel Manoscritt­o trovato a Sara

gozza (1805) di Jan Potocki, per poi rivelarsi cadaveri putrefatti.

Sull’onda del Calibano di Shakespear­e e del Quasimodo di Notre- Dame de Paris di Victor Hugo, la definizion­e di «mostro» è stata a lungo riferita a un’umanità infelice, tanto che, nella convinzion­e che le deformità naturali ottenesser­o un maggior effetto rispetto ai trucchi di scena, Tod Browning produsse un film «maledetto»,

Freaks (1932), i cui protagonis­ti erano esseri umani colpiti da malformazi­oni: nani, donne barbute, gemelli siamesi, torsi viventi e altre mutilazion­i. Ma l’immagine del mostro, per avere successo, ha bisogno di una componente fantastica, di qualcosa di artefatto che tradisca la sua ambiguità. Stephen King ha creato mostri dall’esperienza vissuta, ma anche vampiri, orchi, lupi mannari e diavoli opportunam­ente attualizza­ti, e tuttavia il suo mostro più temibile ha il volto di un pagliaccio ( It, 1986): una figura che dovrebbe divertire e che invece nasconde dietro la sua maschera gli orrori più profondi della psiche umana.

Oggi i mostri sembrano aver perduto gran parte della forza espressiva, mentre la loro difformità o la provenienz­a aliena non spaventano più di tanto, abituati come siamo alle immagini fantasmago­riche costruite dalla creatività digitale. In questo disincanto del mostro, privato del suo fascino e della capacità di generare emozioni, ci restano solo gli orrori della cronaca quotidiana. Privi di poesia, ma non meno inquietant­i. Altri tempi, altri mostri.

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