Corriere della Sera - La Lettura
I social vogliono troppo di me
Era un’agente di polizia, adesso racconta storie gialle. Spiega: «M’impongo di descrivere i miei personaggi con un’onestà bruciante ma per la mia esistenza personale non riesco a fare a meno di ricorrere ai filtri delle comunità online». E qui cominciano
Il mestiere di agente di polizia, che ho svolto per diversi anni, e quello di scrittrice di romanzi, che da qualche tempo mi occupa a tempo pieno, a prima vista hanno poco in comune. Eppure entrambi si basano sull’osservazione e sulla comunicazione, e per questo motivo il primo è stato un perfetto campo d’addestramento per il secondo. Adesso il mio pubblico è costituito da lettori, ma la sfida non è meno ardua: nel distinguere i fatti dalla finzione, i lettori sono più abili di qualsiasi giuria.
Oggi osserviamo e comunichiamo anche e soprattutto attraverso i social, che hanno un ruolo primario nelle indagini criminali e sono ingredienti essenziali della mia vita d’autrice. Quando lavoro sono sola nel mio studio eppure posso avere accesso ai pensieri delle celebrità che vivono su Instagram o chattare con i lettori su Facebook e scoprire con una chiarezza che fa male che cosa amino e detestino nei miei libri o attirare l’attenzione su una causa che mi sta a cuore e ottenere in poco tempo un migliaio di retweet.
Mai, prima d’ora, un autore aveva avuto a portata di polpastrelli una simile ricchezza di materiale umano o canali di comunicazione così veloci. Né erano mai esistiti al mondo tanti «autori», perché i social media ci hanno reso tutti un po’ scrittori. Allora perché mi scopro tentata di prendere le distanze dai social media, anziché celebrarne le infinite potenzialità? In questa vita a ciascuno di noi è concesso grossomodo lo stesso tempo. Ottant’anni, suppergiù. Cinquantadue settimane l’anno. Ventiquattr ’ore al giorno. Ore che possiamo impiegare come meglio crediamo. Per quanto mi riguarda, so che sono di gran lunga troppe quelle che finiscono risucchiate nel vuoto dei social.
Comunicare in maniera efficace e sintetica richiede grande abilità (se ai tempi di Hemingway fossero esistiti i social, il suo famoso racconto in sei parole, «Vendesi: scarpe per neonato, mai indossate», avrebbe senza dubbio spopolato su Twitter) ma lo spessore emotivo di un romanzo è impossibile da eguagliare. Una delle maggiori attrattive dei social media è che su di essi possiamo infallibilmente trovare la nostra tribù di appartenenza. Persone che la pensano come noi, con cui discutere di moda, sport o di qualsiasi altro argomento. Qualunque passatempo uno abbia, troverà sempre unachat, un hashtag, un gruppo su Facebook a riguardo. All’epoca in cui tenevo dei seminari per avviare i pensionati all’uso dei social media, avevo un’allieva, una vedova ottantenne, che sentiva particolarmente la mancanza del marito ogni volta che in tv trasmettevano Ballando con le stelle. «Non ho nessuno con cui discutere dei punteggi», si lamentava. Non dimenticherò mai la sua espressione quando scoprì che poteva chattare con i fan di Ballando di tutto il mondo. Ma non c’è tribù i cui membri non si studino l’un l’altro, e con il confronto tra simili arrivano anche invidia e delusione. La pasticciera che condivide le foto delle sue torte sente la propria soddisfazione incrinarsi quando scorre le immagini delle stupefacenti creazioni altrui. La regina del selfie fiera del suo broncio al silicone accusa il colpo nel vedere le esagerate foto delle rivali. La mia autostima vacilla ogni volta che il libro di un altro autore fa scalpore sui social, anche se fino a 5 minuti prima la versione offline di me era perfettamente soddisfatta dei traguardi raggiunti.
Siamo tutti colpevoli, perché tutti contribuiamo ad alimentare questo meccani- smo postando solo i momenti più fotogenici delle nostre vite; piccole punte di iceberg che sott’acqua nascondono verità più complesse di quanto siamo disposti ad ammettere. Per ogni trionfante status pubblicato su Facebook a proposito dei nostri deliziosi bambini, ci sono dieci aggiornamenti non scritti su capricci, cene lasciate intatte e gite rovinate. Mi impongo di descrivere i miei personaggi con un’onestà bruciante ma per la mia vita personale non riesco a fare a meno di ricorrere ai filtri dei social media.
Quando si parla di social, non si può non parlare di privacy. Da ex agente di polizia, sono atterrita dalla quantità di informazioni inconsapevolmente condivise online. I check in regolari su Facebook, che fanno sapere a un potenziale stalker a che ora vai in palestra; l’app che usi mentre corri e che, quando mostri orgoglioso i tuoi progressi agli amici, rivela il tuo percorso abituale. I selfie all’aeroporto che informano chiunque del fatto che sarai lontano da casa; la foto dei tuoi figli con il logo della scuola in bella mostra. Sono tutti frammenti che trasformano la tua vita in un puzzle facile da risolvere anche per un estraneo.
C’è poi il tema della privacy emotiva. Dai romanzieri ci si aspetta che sui social mettano a nudo la propria anima: che offrano al pubblico una lettura tridimensionale dei loro libri e un pass che dia accesso al dietro le quinte della loro vita. I lettori non vogliono sapere soltanto che cos’abbia ispirato il loro romanzo preferito; vogliono conoscere la famiglia dell’autrice, il nome dei suoi animali domestici, i suoi hobby. Hanno comprato il libro… adesso vogliono un pezzo di te.
So tutto di te, il mio romanzo, ha molto a che fare con la questione della privacy e delle minacce che la tecnologia può comportare. Quando cominciai a scriverlo, ero molto preoccupata per l’apparente epidemia di casi di molestie alle donne, e per il modo in cui la tecnologia sempre più spesso sembrava giocare un ruolo. Ovunque guardassi, vedevo delle connessioni. La compagnia aerea Virgin aveva da poco introdotto un sistema elettronico che consentiva ai passeggeri di acquistare e inviarsi drink a vicenda durante i voli. Un modo simpatico per facilitare la nascita di amicizie e legami reali? O un moltiplicatore di approcci indesiderati, soprattutto nei confronti di donne sole? Una pagina Facebook con oltre 30 mila membri, Women Who Eat on Tubes, pubblicava ogni giorno immagini non autorizzate, e solo parzialmente censurate, di donne intente a mangiare sulla metropolitana. Nella rubrica Commuter Cupid dell’edizione londinese di «Metro», non di rado apparivano annunci a mio avviso per nulla romantici e parecchio inquietanti: «Ti vedo tutti i giorni ad Acton, dove compri un biglietto per Paddington». Oppure: «Ti chiami Shah e paghi sempre con una Barclaycard. Mi piace il modo in cui sorridi. Chiamami». Chiamami? Io mi affretterei a cambiare percorso.
Facebook, Twitter, Instagram, forum su internet… tutti strabilianti strumenti in grado di innescare conversazioni di ogni tipo su scala globale. Senza di essi, le nostre vite (almeno quella di chi scrive) sarebbero più povere; la nostra capacità di osservare e comprendere gli altri più limitata. Pure, sarebbe meglio maneggiare i social con cautela. C’è una vita là fuori che merita di essere vissuta senza filtri. ( traduzione di Chiara Brovelli)
@ClareMackintosh