Corriere della Sera - La Lettura
Testori, il lombardo alla carnale crociata
In pieno secondo Novecento, giusto quando la nostra poesia viaggiava con decisione verso la prosa, Giovanni Testori ha tenuto una direzione in tutto e per tutto contraria. La sua è infatti una lingua dichiaratamente, provocatoriamente letteraria, se non addirittura, come tante volte accade, da alta tragedia. Per di più questo linguaggio aulico, sostenuto, di forte impianto retorico, viene esibito senza alcuna contromisura ironica, vale a dire senza quegli aggiramenti critici, senza quei distanziamenti strategici a cui tanta poesia di quegli stessi anni ha fatto ricorso. Ad esempio in Zanzotto o Giudici, per ricordare due autori suoi coetanei. Così, se proprio Giudici ha intitolato un suo componimento Mi piacerebbe ma non vorrei essere un poeta tragico, si può dire che Testori un poeta tragico lo sia stato invece fino in fondo, per intima quanto sofferta necessità.
Tutto questo dice subito come il suo caso sia quello di un irregolare, di un iso- lato, a partire appunto dal rapporto, tutto di marca contrastiva, con la lingua. Mario Santagostini lo ha messo bene in chiaro nella sua introduzione (molto ben pensata e molto ben scritta) al volume delle Poesie scelte, uscito per Guanda a cura di Fulvio Panzeri. «Piegare una lingua secondo le volontà espressive — spiega Santagostini — è, essenzialmente, un momento di agonismo, lotta. E da quella lotta trae energia, potenza. Talvolta energia e potenza violente, esplosive. Matrici di grandi furori oracolari, disperate lamentazioni funebri, di pathos verbale sospeso tra la vis oratoria e l’urlo scomposto». Con un simile procedimento espressivo, secondo cui una lingua codificata, alta, astratta, fredda, estranea, è chiamata a divenire visceralmente cosa propria, a rendere ragione del patimento e dell’estasi della carne, del corpo, della materia sensibile, la poesia di Testori non poteva che risultare il teatro degli attriti e delle contraddizioni più eclatanti: «Rotolano le chiome stanche/ si feriscono nei fiotti del gran sangue,/ vanno;/ l’impeto di chi resta/ si spegne nel non senso/ che lega ancora ai tendini e alla vene».
Del resto, Testori è stato anche e soprattutto un drammaturgo, oltre che un critico d’arte eccellente. La vocazione scenica dei suoi spesso torrenziali, potenzialmente interminabili monologhi poetici, è non a caso fortissima, a partire dal libro d’esordio, I Trionfi, una raccolta di parecchie migliaia di versi uscita nel cruciale 1965 (l’anno, per intenderci, de Gli strumenti umani di Sereni e de La vita in versi di Giudici). Allo stesso modo la sintonia particolare del critico d’arte con la pittura del Seicento, il secolo delle grandi scenografie e delle rovine, della celebrazione della carne e del trionfo della morte (ma anche, tanto più per un lombardo come lui, il secolo de I promessi sposi), dice molto non solo delle predilezioni e delle ossessioni tematiche e figurative del poeta, ma anche della tensione profonda che innesca la sua poesia: il nodo indissolubile, e in fin dei conti inspiegabile, ingiustificabile, tra mortificazione e redenzione, tra colpa e purezza, vitalità e morte, vissuto e per molti versi espiato anzitutto attraverso il confronto con la figura di Cristo (e in particolare il tema dell’incarnazione), o attraverso la meditazione sull’amore, la bellezza, la grazia sensibile. In ogni caso, anche nelle composizioni più brevi e formalmente composte (ad esempio in Nel
Tuo sangue, del 1973, un libro tra i suoi più apprezzati), il carattere tormentato, irrisolto, non pacificato delle sua poesia non viene mai meno: «Sui labbri,/ mai carezza,/ solo chiodi/ ed amarezza/ di me scimmia,/ di me orango,/ sempre infame,/ qui,/ me ossa,/ qui,/ me fango». Proprio come tra lingua e materia, l’attrito tra il senso d’abiezione e l’assolutezza del desiderio, tra la finitudine, il patimento (è come pochi un poeta della sofferenza, del dolore), l’oscenità stessa del corpo e l’estasi, non potrebbe essere più radicale, più immedicabile. Tra gli scrittori lombardi del secondo Novecento, Testori è stato forse quello più impermeabile alla grande eredità illuminista e progressiva, che pure è stata fondamentale per la definizione della stessa cultura lombarda.
La sua lingua così austera, così dura e inflessibile, conosce probabilmente un unico contrappeso, quello dell’intonazione, della voce. Quasi invariabilmente le sue poesie riescono infatti delle confessioni a voce alta, e appunto intonano e declamano, non senza una componente gestuale, ciò che viene da dentro e che più preme. Intimità e ostentazione, inclinazione viscerale e grido, il fuoco e il gelo, confessioni che sono insieme delle invettive. Santagostini ha ricordato, specie per le poesie più eruttive e informali degli inizi, le giaculatorie o le cantilene infantili. È vero, ed è tanto più singolare: una cantilena sillabata nella lingua di Alfieri.
Da questo punto di vista, forse non ultima delle sue tante e vitali contraddizioni, in questa poesia agonistica, solitaria, eroica, la vittoria e la sconfitta finiscono per essere la stessa cosa. Il grande stile tragico nella tradizione italiana, infatti, porta con sé come da sempre qualcosa di anacronistico, come un’impossibilità o un’impraticabilità che sono tutt’uno con la sua grandiosità, con il suo splendore inevitabilmente tinto di drappi oscuri e sanguinolenti. Ma appunto questo, dice Testori in una delle sue ultime poesie, è il destino dell’uomo: «Segno della sconfitta/ che è vittoria,/ unico segno/ della gloria,/ crapa,/ tu,/ d’ogni muscolo/ e tendine/ spogliata,/ denudata,/ preparata per l’eterno...// Sarà paradiso,/ sarà inferno?/ Senza/ o con di Dio/ l’invisibil perno?».