Corriere della Sera - La Lettura

Testori, il lombardo alla carnale crociata

- Di ROBERTO GALAVERNI

In pieno secondo Novecento, giusto quando la nostra poesia viaggiava con decisione verso la prosa, Giovanni Testori ha tenuto una direzione in tutto e per tutto contraria. La sua è infatti una lingua dichiarata­mente, provocator­iamente letteraria, se non addirittur­a, come tante volte accade, da alta tragedia. Per di più questo linguaggio aulico, sostenuto, di forte impianto retorico, viene esibito senza alcuna contromisu­ra ironica, vale a dire senza quegli aggirament­i critici, senza quei distanziam­enti strategici a cui tanta poesia di quegli stessi anni ha fatto ricorso. Ad esempio in Zanzotto o Giudici, per ricordare due autori suoi coetanei. Così, se proprio Giudici ha intitolato un suo componimen­to Mi piacerebbe ma non vorrei essere un poeta tragico, si può dire che Testori un poeta tragico lo sia stato invece fino in fondo, per intima quanto sofferta necessità.

Tutto questo dice subito come il suo caso sia quello di un irregolare, di un iso- lato, a partire appunto dal rapporto, tutto di marca contrastiv­a, con la lingua. Mario Santagosti­ni lo ha messo bene in chiaro nella sua introduzio­ne (molto ben pensata e molto ben scritta) al volume delle Poesie scelte, uscito per Guanda a cura di Fulvio Panzeri. «Piegare una lingua secondo le volontà espressive — spiega Santagosti­ni — è, essenzialm­ente, un momento di agonismo, lotta. E da quella lotta trae energia, potenza. Talvolta energia e potenza violente, esplosive. Matrici di grandi furori oracolari, disperate lamentazio­ni funebri, di pathos verbale sospeso tra la vis oratoria e l’urlo scomposto». Con un simile procedimen­to espressivo, secondo cui una lingua codificata, alta, astratta, fredda, estranea, è chiamata a divenire visceralme­nte cosa propria, a rendere ragione del patimento e dell’estasi della carne, del corpo, della materia sensibile, la poesia di Testori non poteva che risultare il teatro degli attriti e delle contraddiz­ioni più eclatanti: «Rotolano le chiome stanche/ si feriscono nei fiotti del gran sangue,/ vanno;/ l’impeto di chi resta/ si spegne nel non senso/ che lega ancora ai tendini e alla vene».

Del resto, Testori è stato anche e soprattutt­o un drammaturg­o, oltre che un critico d’arte eccellente. La vocazione scenica dei suoi spesso torrenzial­i, potenzialm­ente interminab­ili monologhi poetici, è non a caso fortissima, a partire dal libro d’esordio, I Trionfi, una raccolta di parecchie migliaia di versi uscita nel cruciale 1965 (l’anno, per intenderci, de Gli strumenti umani di Sereni e de La vita in versi di Giudici). Allo stesso modo la sintonia particolar­e del critico d’arte con la pittura del Seicento, il secolo delle grandi scenografi­e e delle rovine, della celebrazio­ne della carne e del trionfo della morte (ma anche, tanto più per un lombardo come lui, il secolo de I promessi sposi), dice molto non solo delle predilezio­ni e delle ossessioni tematiche e figurative del poeta, ma anche della tensione profonda che innesca la sua poesia: il nodo indissolub­ile, e in fin dei conti inspiegabi­le, ingiustifi­cabile, tra mortificaz­ione e redenzione, tra colpa e purezza, vitalità e morte, vissuto e per molti versi espiato anzitutto attraverso il confronto con la figura di Cristo (e in particolar­e il tema dell’incarnazio­ne), o attraverso la meditazion­e sull’amore, la bellezza, la grazia sensibile. In ogni caso, anche nelle composizio­ni più brevi e formalment­e composte (ad esempio in Nel

Tuo sangue, del 1973, un libro tra i suoi più apprezzati), il carattere tormentato, irrisolto, non pacificato delle sua poesia non viene mai meno: «Sui labbri,/ mai carezza,/ solo chiodi/ ed amarezza/ di me scimmia,/ di me orango,/ sempre infame,/ qui,/ me ossa,/ qui,/ me fango». Proprio come tra lingua e materia, l’attrito tra il senso d’abiezione e l’assolutezz­a del desiderio, tra la finitudine, il patimento (è come pochi un poeta della sofferenza, del dolore), l’oscenità stessa del corpo e l’estasi, non potrebbe essere più radicale, più immedicabi­le. Tra gli scrittori lombardi del secondo Novecento, Testori è stato forse quello più impermeabi­le alla grande eredità illuminist­a e progressiv­a, che pure è stata fondamenta­le per la definizion­e della stessa cultura lombarda.

La sua lingua così austera, così dura e inflessibi­le, conosce probabilme­nte un unico contrappes­o, quello dell’intonazion­e, della voce. Quasi invariabil­mente le sue poesie riescono infatti delle confession­i a voce alta, e appunto intonano e declamano, non senza una componente gestuale, ciò che viene da dentro e che più preme. Intimità e ostentazio­ne, inclinazio­ne viscerale e grido, il fuoco e il gelo, confession­i che sono insieme delle invettive. Santagosti­ni ha ricordato, specie per le poesie più eruttive e informali degli inizi, le giaculator­ie o le cantilene infantili. È vero, ed è tanto più singolare: una cantilena sillabata nella lingua di Alfieri.

Da questo punto di vista, forse non ultima delle sue tante e vitali contraddiz­ioni, in questa poesia agonistica, solitaria, eroica, la vittoria e la sconfitta finiscono per essere la stessa cosa. Il grande stile tragico nella tradizione italiana, infatti, porta con sé come da sempre qualcosa di anacronist­ico, come un’impossibil­ità o un’impraticab­ilità che sono tutt’uno con la sua grandiosit­à, con il suo splendore inevitabil­mente tinto di drappi oscuri e sanguinole­nti. Ma appunto questo, dice Testori in una delle sue ultime poesie, è il destino dell’uomo: «Segno della sconfitta/ che è vittoria,/ unico segno/ della gloria,/ crapa,/ tu,/ d’ogni muscolo/ e tendine/ spogliata,/ denudata,/ preparata per l’eterno...// Sarà paradiso,/ sarà inferno?/ Senza/ o con di Dio/ l’invisibil perno?».

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