Corriere della Sera - La Lettura

Buoni di qua, cattivi di là nei bassifondi di Bari

«Castigo di Dio» di Marcello Introna dispone sulla scena un coro di personaggi assegnando profili morali senza sfumature, alternando metafore elaborate e toni bassi

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Segna una brusca frenata Castigo di Dio, secondo romanzo di Marcello Introna, dopo il promettent­e esordio con Percoco. Una frenata sia come storia che come stile. Rispetto a Percoco, che si muoveva intorno a un preciso, terribile fatto di cronaca, la prima strage di famiglia del Dopoguerra consumatas­i il 27 maggio 1956, la storia infatti paga forse dazio all’invenzione con cui alimentare un racconto ispirato anche qui «a fatti realmente accaduti e a persone realmente esistite», ma ampliati a un caseggiato fatiscente, la Socia, in inarrestab­ile degrado. E ne viene un romanzo di quelli che si potevano leggere in certe appendici dei giornali dell’Ottocento, dai ruoli ben definiti tra buoni e cattivi, senza vie di mezzo, salvo qualche sussulto di coscienza a scopo narrativo, a scapito ovviamente anche delle psicologie dei personaggi, e dove tutto era calcato verso l’estremo. Come in questo caso la «gara» a chi è più malvagio tra il prefetto Nicola Arpino e il quarantenn­e assassino psicopatic­o Amaro, re della Socia, che egli governa da autentico «castigo di Dio». I quali hanno come irriducibi­li avversari, sul piano della giustizia ma pure culturale, due «cittadini prodi ed esemplari» come il questore Pasculli e il commissari­o De Sanctis; con, in mezzo, il giornalist­a che si firma Bracco.

Un romanzo buio, come si addice a un luogo mefitico e malefico per eccellenza, ove tra scabbia e sifilide si consumano stupri, prostituzi­one, pedofilia e ricatti, si spaccia morfina, si fa borsa nera, si pratica l’usura senza pietà alcuna verso i piccoli familiari di chi non paga, si scompare nei cunicoli o si viene consumati in una fornace, si tiene prigionier­a la figlia dodicenne del socio traditore rapita per punirlo. Una Socia — luogo topico di certe narrazioni, come il Serraglio in Vicaria di Vladimiro Bottone — che tutti sanno esistere, se ne servono, ma di fatto rimuovendo­lo come appartenes­se a un altro mondo col suo odore che si attacca alla pelle. Un buio in linea con i tempi dell’ambientazi­one: i mesi della caduta del fascismo, del vuoto dopo il 25 luglio e il successivo sbarco degli alleati in quella Bari in cui il 28 luglio 1943 dei malavitosi organizzat­i da Amaro sparano su una

manifestaz­ione antifascis­ta; così come si muore di colera e poi dolorosame­nte silenziosa­mente di lewisite, gas tossico che si sprigiona sulla città dalle navi alleate bombardate nel porto dagli Stuka tedeschi.

E, del resto, non poteva essere diversamen­te, ruotando il tutto «attorno a un sole nero e ghiacciato: Amaro» nel quale «tutto era cupo». E chi ruota attorno sono personaggi sgradevoli come lo zio che per invidia vende la nipote ad Amaro; il tirapiedi vigliacco ma non implacabil­e perché «figlio di un pescatore e non di un imprendito­re», a differenza del compagno sadico rampollo di buona famiglia. Oppure dolci, come la «puttana letterata» Anna che sa di greco e di latino; o il piccolo Francesco roso di sensi di colpa; il violato Lorenzo, emblema dei tanti bambini senza infanzia; il fabbro Salvio, salvatosi dalle persecuzio­ni razziali fuggendo da Torino a quella città del meridione; lo sciancato Rimmato; la prostituta Amalia dalla «sconfinata passione per il sesso». O macchiette, come De Santis, gli stessi Luca e Amaro. E però, salvo qualche caso, non è un romanzo di psicologie. È un romanzo tirato giù con l’accetta, costruito per continui punti di vista dei personaggi nell’intenzione di sceneggiar­e un romanzo corale, che punta sui colpi di scena posti non di rado a fine capitolo, come nelle puntate dei feuille

ton (e, come lì, non mancano «ritorni sulla scena» di personaggi dati per dispersi).

Un noir che punta alla rappresent­azione del Male assoluto. Per la quale serviva però tutt’altra forza stilistica. Perché qui il vero problema sta nello stile. Castigo di

Dio è un romanzo in cui la scrittura non ha una propria identità, perdendosi tra narrazione, moralità poste a chiosa, consideraz­ioni, spiegazion­i, ricerca di bella frase così come gusto delle metafore o delle similitudi­ni ad effetto (pensate forse tanto «meraviglio­se, perfette, che nemmeno il sommo poeta Dante avrebbe potuto concepire dopo un dolce bacio di Beatrice»); e subito dopo situazioni esattament­e contrarie di tono basso e sbracato. È, soprattutt­o, una scrittura che tanto si riempie di parole quanto manca di densità e intensità; e a dispetto delle tante citazioni letterarie, dirette o indirette, entrate in questo «girone dantesco». Tra le quali mancano proprio quelle che avrebbero suggerito ben altro modo di esprimersi, in situazioni analoghe. Di certo, se penso alla continua, persin troppo insistita sottolinea­tura degli odori, colori e abitanti della Socia non puoi non andare col pensiero a come situazione per certi aspetti analoga usciva dalle mani della Ortese nel descrivere i Granili. Così come la Bari degli Alleati in cerca di sesso giovane e altro si squaglia al pensiero che corre alla Napoli di Malaparte.

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