Corriere della Sera - La Lettura

Il patto del sangue e dell’acquasanta

La Puglia del 1963 e un’infanzia esposta alla violenza nel romanzo di Mirko Sabatino

- Di ALESSANDRO BERETTA

Primo, Mimmo e Damiano sono tre ragazzini amici in un piccolo paese del Gargano nel 1963. Il loro mondo sono i vicoli sotto il sole, le famiglie, la scuola, la Chiesa e un angolo di scogliera segreto in cui ritrovarsi. Sono tre dodicenni, come ricorda nel «Prologo» Primo che narra tutta la vicenda parecchi anni dopo, e «i nostri corpi non andavano molto oltre la maglietta e i pantalonci­ni con cui eravamo vestiti».

I piccoli protagonis­ti di L’estate muore giovane, romanzo d’esordio di Mirko Sabatino, sono gli interpreti di un lungo ricordo, diviso in 28 capitoli, che ripercorre l’esplosione della loro infanzia direttamen­te nell’età adulta, senza età di mezzo. Questo perché ogni elemento che compone il quadro è incrinato, a partire dalle famiglie dei tre: Primo è orfano di un padre che da professore di lettere a scuola era diventato cantante, gli rimangono la madre silenziosa nel lutto, la nonna e la sorella Viola con cui ha un legame speciale; Damiano, il più maturo, ha un padre geloso della moglie Laura Danza, donna sensuale che ha rinunciato a fare l’attrice; Mimmo ha una genitrice che lo vuole sacerdote e il papà in manicomio.

Il gruppo è uno stare insieme che va oltre il momento dei giochi, è un nucleo di difesa e i tre fanno un patto, siglato con acqua santa e sangue, per cui se a qualcuno di loro o dei loro cari verrà fatto male, si vendichera­nno insieme. Una dichiarazi­one di fiducia e fedeltà reciproca che, con il procedere degli eventi, non sarà per nulla innocua. La violenza, infatti, scandisce fin dall’inizio il romanzo, con una rissa tra ragazzi per un pallone firmato da Omar Sivori e il successivo piano per bucarlo al proprietar­io, e ha una cadenza lenta, ma costante e crescente, soprattutt­o quando passa attraverso i gesti degli adulti: da Vito Canosa che tenta uno stupro, a Don Gerardo, sacerdote che sembra essere uno dei pochi punti di riferiment­o e che nasconde un’altra faccia terribile. Tutto viene vendicato, con piani infantili e complessi spezzati dall’istinto e dalla rabbia, ma a che prezzo: il dolore e la malvagità provocati dai grandi divorano i colori della prima età.

Sabatino firma un romanzo ben calibrato nell’intreccio, privo di sfumature dialettali nella lingua, precisa nel lessico ma intoppata da un’eccessiva fiducia nella virgola come mezzo di sospension­e poetica, e riesce, grazie alla bolla chiusa dello scenario, a rendere palpabile la tensione e l’intensità del rapporto tra i piccoli. Lo fa attraverso la voce di Primo, ritornato adulto al paese per assistere al recupero del relitto della «mitologica mietitrebb­ia» che ha avuto un ruolo fondamenta­le nella storia, un oggetto simbolo che fa emergere tante domande sulla moralità di quanto hanno fatto in quel 1963. Anche se non ci sono vere risposte, forse perché sono mancati padri cui rivolgerle, nonostante la lettera-talismano lasciata a Primo dal suo, nonostante le parole chiave del «matto» padre di Mimmo: «Un’azione, per quanto specifica ed estrema, non basta a collocare un individuo nelle categorie del Bene o del Male». Per uscire traumatica­mente da un’età, invece, sì.

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