Corriere della Sera - La Lettura

La ricerca è sempre «scorretta»

- Di ELISABETTA ROSASPINA

L’antropolog­o Jonathan Friedman attacca il conformism­o ideologico che impedisce qualsiasi critica alle politiche di accoglienz­a per gli immigrati. «Stabilire che certe domande non si fanno equivale a uccidere le scienze sociali»

Se Agatha Christie avesse intitolato il suo capolavoro Dieci piccoli africani, anziché Dieci negretti, co me fe ce i ncaut a mente nel 1939, gli editori (in particolar­e americani) non si sarebbero dovuti arrovellar­e negli anni successivi per trovare un titolo meno datato e irriguardo­so verso la popolazion­e di colore: E poi non ne rimase nessuno, scelsero alla fine negli Stati Uniti (e Arnoldo Mondadori, nel 1946) o Dieci piccoli indiani, si preferì infine in Italia, sulla traccia della filastrocc­a ottocentes­ca originale di Septimus Winner, a cui la romanziera si era ispirata. E «chi era il Capitano Achab?», si è chiesto sarcastica­mente alla fine del secolo scorso Robert Hughes, autore de La cultura del piagnisteo (Adelphi, 1993): il «portatore di un atteggiame­nto scorretto verso le balene».

La questione, insomma, è antica; e, prima di tornare ad affrontarl­a dal punto di vista antropolog­ico, l’americano Jonathan Friedman, docente alla plurisecol­are Università di Lund, la «città delle idee» nel sud della Svezia, dove vive da 40 anni, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, sposato a una collega svedese, ci ha pensato su bene, consapevol­e di avventurar­si su un terreno minato. Il libro, Politicame­nte corretto. Il conformism­o morale come regime, è stato concepito nel 1997, quando la moglie dello studioso, Kajsa Ekholm, fu accusata di fascismo e razzismo per aver pubblicame­nte considerat­o «fallimenta­ri» le politiche di integrazio­ne degli immigrati nel suo Paese e i tentativi di trasformar­lo in uno Stato multicultu­rale, in cui gli svedesi fossero un gruppo etnico tra tutti gli altri.

Terminato il suo saggio nel 2002, Friedman lo ha lasciato riposare nel cassetto per un’altra quindicina d’anni, dopo aver rifiutato di modificarl­o su indicazion­e della University of California Press, pur interessat­a alla sua pubblicazi­one nella collana California Series in Public Anthropolo­gy. Finché, per una serie di rinvii negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le 324 controvers­e pagine, curate da Piero Zanini, non sono arrivate prima nelle librerie italiane, giovedì 25 gennaio, per Meltemi, editore di tendenze tutt’altro che reazionari­e, al contrario della reputazion­e che circonda Friedman in Svezia.

Professore, si è fatto una brutta fama...

«Lo so, mi accusano di essere un fascista. Posso assicurare che non è assolutame­nte il caso: al contrario. Ma ciò conferma la tesi di fondo del mio libro: il politicame­nte corretto emerge in periodi storici di grande suscettibi­lità, quando sono in corso trasformaz­ioni della società secondo progetti di alcune élite, come la sinistra borghese, insicure delle loro stesse posizioni».

Per esempio?

«La questione etnica è diventata un tema sensibile e chi osa sostenere che la politica migratoria porti conflitti nella società nazionale, diventa un fascista e un razzista. Basta, come nel mio caso, non essere d’accordo con il pensiero dominante».

Si riferisce alla Svezia?

«In Svezia questo nervosismo si percepisce nelle classi alte, nelle accademie. Ma anche altrove, la gente ha paura di parlare, teme di dire qualcosa di sbagliato. Questo condiziona­mento viene dai centri di potere».

In altre parole, sarebbe in pericolo la libertà di espression­e?

«Professori e giornalist­i sono intimoriti non tanto da veti o ricatti, quanto dal rischio di finire additati al pubblico ludibrio. In alcune università americane la situazione è diventata drammatica. Se uno studente contesta il libro di testo di un mentalità della gente basti cambiare il linguaggio o correggere Tintin in Congo, considerat­o razzista. Ma non funziona così».

Un linguaggio più educato non può aiutare a migliorare anche il comportame­nto?

«La gentilezza è un’altra cosa. Lo scriveva 70 anni fa George Orwell in Politics and the English Language, sul rischio di cancellare le parole. Il linguaggio è uno strumento per esprimere il pensiero, non per nasconderl­o o impedirlo».

Significa che l’umanità è congenitam­ente razzista?

«Il razzismo è universale, così come l’imperialis­mo non è un’esclusiva dell’Occidente. Tutte le civiltà lo sono. I cinesi sono andati in Africa e importavan­o manodopera: gli africani, per loro, non erano neppure esseri umani. La schiavitù è esistita anche in Sudafrica e gli arabi hanno avuto schiavi per secoli».

Quindi, secondo lei, non c’è nulla da fare?

«Ci potrebbe essere. Ma occorre discutere il problema, non basta moralizzar­e il linguaggio. Le sit-com del commediogr­afo statuniten­se Jerry Seinfeld sono state bollate come razziste e discrimina­torie perché tutti i personaggi sono bianchi e non ci sono neri o latino-americani. Per anni ho creduto che il politicame­nte corretto sarebbe presto scomparso ma si è soltanto evoluto. Se prima chiudeva la bocca alle persone facendole vergognare, ora sta diventando violento. Quel che è accaduto alla redazione di “Charlie Hebdo” è un buon esempio».

Può farne invece uno nel suo campo?

«La ricerca. Non puoi fare ricerca se vuoi essere politicame­nte corretto, perché finisci per importi dei limiti nelle domande. Durante un seminario sull’etica del lavoro sul terreno, il sociologo Jack Katz, dell’Università della California, ci condusse nelle enclave di Los Angeles e alcuni dottorandi gli chiesero se fosse morale chiedere alle persone con cui lavoravano in alcuni quartieri di immigrati di Malmö, da dove veniva il loro denaro, visto che erano disoccupat­i. “Se non glielo chiedete, non siete etici come antropolog­i o come sociologi”, ha risposto lui».

Il libro nasce dagli attacchi subiti da sua moglie, come antropolog­a, per aver criticato le politiche d’integrazio­ne in Svezia. Vent’anni dopo come va?

«Il numero degli stupri in Svezia è fra i più alti al mondo e nel 90% dei casi non si tratta di violenza domestica».

Tutti migranti?

«La stragrande maggioranz­a sono senza residenza o immigrati regolari».

Sono dati ufficiali?

«Le statistich­e sul crimine in Svezia si possono trovare ma, dal 2005, non vengono più comunicate da organi ufficiali».

Insomma sta dando ragione a Donald Trump?

«Non è il mio eroe, ma se non altro dice quel che pensa. A volte è ridicolo, altre non tanto. Può essere un bugiardo, ma non un ipocrita. Se l’americano medio lo ha votato, è perché si è sentito ingannato negli ultimi 10 o 15 anni. L’elettorato non è politicame­nte corretto quando vota e la Brexit lo dimostra. In Francia, Marine Le Pen può diventare politicame­nte corretta, ma deve smettere di pensare. La questione non è se sia, o meno, una populista perché è stata un’élite politica a inventare il populismo che, inizialmen­te, era un movimento di sinistra».

Pensa sul serio che si possano fermare i movimenti migratori?

«No. Ci sono 60 milioni di persone pronte a partire. È un fenomeno storico comune nel declino dei Paesi egemonici imperialis­ti».

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