Corriere della Sera - La Lettura
Vero statista o capo di partito Non c’è pace per Aldo Moro
Il passo lento, il linguaggio involuto, ma anche il progetto di una democrazia più aperta e salda. Il leader democristiano voleva promuovere l’evoluzione verso un sistema di alternanza o si accontentava di tutelare istituzioni giudicate troppo fragili? Fa
Aquarant’anni dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro, abbiamo tentato un bilancio della sua opera politica interpellando tre storici: Guido For migoni, s t udi os o del mondo cattolico e biografo del leader democristiano; Roberto Chiarini, ex presidente del comitato scientifico della Fondazione Craxi, e Paolo Soddu, biografo del leader repubblicano Ugo La Malfa. Il punto di partenza è la proverbiale propensione di Moro a mediare e comporre i conflitti, nella Dc e al di fuori. Come giudicarla?
GUIDO FORMIGONI — In questo comportamento c’è un evidente aspetto personale e psicologico: anche in termini caratteriali, Moro preferiva assecondare i processi piuttosto che operare tagli netti. Molti infatti hanno contrapposto Moro, rallentatore estenuante, ad Amintore Fanfani, decisore volontari sta. Senza dubbio c’è del vero: spesso anche i suoi collaboratori stretti erano esasperati dalla tendenza di Moro al rinvio. Però la questione ha anche un risvolto politico. Stiamo parlando di un leader che si è sempre posto obiettivi di cambiamento e riforma, ascrivibili alla sua iniziale adesione alla corrente del democristiano di sinistra Giuseppe Dossetti. Il suo progetto era fare dell’Italia la democrazia sociale avanzata disegnata nella prima parte della Costituzione. Ma Moro era convinto che si potesse perseguirlo senza rischi solo portandosi dietro l’elettorato d’ordine, timoroso dei cambiamenti, forte soprattutto nel Sud che non aveva partecipato alla Resistenza. Perciò, pur essendo dossettiano, aveva apprezzato gli sforzi di Alcide De Gasperi, a partire dall’estromissione di Pci e Psi dal governo nel 1947, per metabolizzare il moderatismo italiano nello Scudo crociato. Moro fu sempre attentissimo a non compromettere l’unità della Dc: era convinto che una frattura avrebbe liberato pulsioni pericolose per la de- mocrazia.
ROBERTO CHIARINI — Moro viene in effetti da una formazione blandamente dossettiana, che ha il respiro quasi di un’utopia. Ma con il tempo, da politico immerso nelle responsabilità di vertice, accentua sempre più la sua visione tragica: per lui la fragilità della democrazia italiana diventa un incubo, è convinto che la priorità assoluta sia salvarla da pericoli imminenti. A questo grande assillo Moro sacrifica sempre più il respiro riformatore della sua azione, come si vede negli anni in cui tiene la guida del governo dal 1963 al 1968, affossando lo slancio iniziale del centrosinistra. La sua linea è sopire: sopire per sopravvivere. Non con un disegno meschino di potere personale ma con l’intento di consolidare la democrazia. Da questo punto di vista ha avuto abbastanza successo ma al costo di sacrificare gravemente l’incisività dell’azione di governo.
PAOLO SODDU — Sono d’accordo nel con- siderare Moro un dossettiano che ha assunto la lezione di De Gasperi. Ma bisogna aggiungere che l’opera degasperiana non si riduce alla rottura con le sinistre del 1947: comprende anche le riforme varate tra il 1948 e il 1953, oltre al rifiuto dell’apertura a destra che portò a un conflitto con le gerarchie cattoliche. In confronto il centrosinistra fu una delusione, che Ugo La Malfa e la sinistra democratica laica imputarono anche a Moro. Il fatto è che il leader pugliese aveva una visione, non direi tragica, ma certo pessimistica. Era consapevole che dal 1945 l’Italia stava vivendo la prima vera esperienza democratica della sua storia, una forte novità rispetto agli equilibri tradizionali del Paese. Quindi Moro sacrificò coscientemente nel centrosinistra la spinta riformatrice, privilegiando invece l’aspetto di stabilizzazione del sistema politico, di allargamento delle sue basi con l’ingresso dei socialisti al governo. Credo inoltre che lui, al contrario degli altri dirigenti democristiani, avesse capito che l’egemonia della Dc poteva rivelarsi un problema, perché ostacolava l’evoluzione verso un assetto più aperto e consensuale, con una piena legittimazione reciproca tra gli attori principali. Moro aveva uno sguardo strategico circa il futuro della democrazia e questo negli anni Settanta gli consentì di dialogare con il Partito comunista di Enrico Berlinguer. Non è un caso che allora Moro, immobilista per eccellenza, abbia guidato invece tra il 1974 e il 1976 uno dei governi più attivi della Repubblica, che varò la riforma urbanistica e quella fiscale, concesse il voto ai diciottenni, creò il ministero dei Beni culturali, trasformò il diritto di famiglia.
Ma la linea riformatrice e aperta a sinistra di Moro non tradiva un po’ gli elettori democristiani, in prevalenza conservatori?
GUIDO FORMIGONI — L’osservazione ha un fondamento, però la Dc deve essere ancora studiata a fondo: spesso nel rievocarla si oscilla tra la demonizzazione e il rimpianto. Era un partito pluralista, una federazione di gruppi con posizioni anche molto diversificate, che riuscivano però sempre a trovare convergenze, magari anche al ribasso, e a evitare scissioni. Lo stesso vale per la base sociale: non credo
che la Dc avesse solo un elettorato moderato, trascinato su posizioni più avanzate da una classe politica che rischiava di tradire un mandato. Raccoglieva un voto composito: anche il recupero democristiano alle elezioni del 1976 non avviene solo raschiando il barile dell’anticomunismo, ma anche raccogliendo intorno al segretario Benigno Zaccagnini le istanze innovative del cattolicesimo impegnato. Lo stesso immobilismo dei governi Moro negli anni Sessanta si spiega in larga misura per il freno posto dalla componente democristiana moderata, che lancia l’allarme sugli equilibri del bilancio statale, ma poi nei primi anni Settanta si smentirà aprendo i cordoni della borsa. C’è una dialettica aspra e persistente nella Dc, che condiziona le mosse dei suoi leader.
ROBERTO CHIARINI — La condizione della Dc deriva da un’asimmetria strutturale della politica nell’Italia repubblicana. Il mondo dei partiti comprende quasi soltanto forze di sinistra o di centro che guardano a sinistra: a destra c ’è solo il Msi. Ma nella società civile emerge invece a più riprese, anche in situazioni storiche molto differenziate, una forte presenza conservatrice, che difende valori tradizionali. Cito due indicatori a distanza di mezzo secolo: nel 1946 quasi tutti i partiti sono repubblicani ma la monarchia, pur avendo contro i mezzi di comunicazione, prende oltre il 45% dei voti e vince in tutto il Sud.
GUIDO FORMIGONI — La Dc però nel referendum lascia libertà di voto.
ROBERTO CHIARINI — Certo. E così dimostra grande saggezza. Scegliendo la repubblica resta legittimata nella società politica, ma con la libertà di voto mantiene i legami con la componente di destra della società civile. Molto tempo dopo, quando crolla la prima Repubblica, si afferma nel 1994 lo schieramento guidato da Silvio Berlusconi, che agita la bandiera dell’anticomunismo. La Dc non poteva permettersi di perdere il consenso conservatore di massa, sia perché era la base del suo potere sia perché a destra c’erano forze la cui lealtà verso le istituzioni era assai dubbia. Perciò il maggiore merito di Moro è consistito nel salvaguardare la democrazia e l’economia di mercato, evitando uno scontro frontale tra destra e sinistra in una situazione lacerata sul piano interno e internazionale. In questo è stato un grande politico ma non un grande statista come De Gasperi. Ed è stato anche un uomo della prima Repubblica, la cui lezione non si può attualizzare. Oggi sarebbe un marziano: basti pensare al suo linguaggio, tutto finalizzato a gestire equilibri politici delicati con espressioni tipo «convergenze parallele», mai rivolto direttamente ai cittadini per ottenerne il consenso. PAOLO SODDU — Ogni politico appartiene al tempo in cui è vissuto: anche De Gasperi oggi sarebbe un marziano. ROBERTO CHIARINI — Però Moro nel 1947 non lo vedo dare il benservito alle sinistre come De Gasperi. La Dc aveva il 35%, Pci e Psi dominavano le piazze: ci voleva un coraggio da leone a sfidarli. Io non lo avrei fatto.
PAOLO SODDU — C’era tuttavia un quadro internazionale che favorì la scelta di De Gasperi. Moro aveva altri problemi. La socializzazione politica degli italiani era avvenuta in gran parte sotto il fascismo. E la Dc, come partito dominante, doveva gestire un’eredità impregnata di residui autoritari. Lo sforzo lungimi-
rante di Moro fu indirizzato a trasformare la dimensione egemonica della Dc in senso pluralista, sbloccando il sistema, attraverso un riconoscimento consensuale, verso un meccanismo competitivo paritario. Si spiegano così il centrosinistra e il coinvolgimento del Pci nella politica di solidarietà nazionale. Il tentativo fallì, tant’è vero che abbiamo avuto l’alternanza al governo solo dopo il 1994. Ma lo scopo era quello: semplificando potremmo dire che Moro perseguiva una «via tedesca», per giungere a una legittimazione reciproca tra la Dc e la sinistra simile a quella tra Cdu e Spd. Si trattava soprattutto di far maturare una sinistra di governo, mentre la destra moderata era rappresentata nell’ambito della Dc. E la destra autoritaria restava emarginata perché aveva già guidato il Paese con esiti tragici.
Dobbiamo pensare che la «terza fase» di cui parlava Moro potesse contemplare l’alternanza, quindi una Dc all’opposizione?
GUIDO FORMIGONI — Nell’intervista a Eugenio Scalfari che uscì dopo la morte di Moro, il leader democristiano sembra adombrare una fase d’intesa con il Pci destinata a sboccare in una democrazia dell’alternanza. Ma si tratta di un testo postumo molto discusso, non tutti lo reputano credibile. Moro di certo riteneva necessaria la legittimazione dei comunisti ma sapeva che nel breve periodo un governo con il Pci era insostenibile per la Dc, anche (ma non solo) a causa del veto americano. Quindi i tempi erano tutti da vedere ma finché reggeva la distensione tra Est e Ovest, si poteva immaginare di rimettere in discussione le spaccature della guerra fredda. Tra l’altro Moro contava sul Pci per riportare sul terreno parlamentare le pulsioni movimentiste del Sessantotto, a cui il leader democristiano aveva guardato con attenzione, pur consapevole della loro potenziale pericolosità. Non mi pare quindi si possa dire che il dialogo di Moro con i comunisti fosse tattico e strumentale, volto solamente a logorarli. Certo non intendeva aderire alla proposta di compromesso storico avanzata da Berlinguer, ma il suo interesse verso il Pci aveva un carattere sistemico. La sua visione strategica consente dunque di considerare Moro uno statista? GUIDO FORMIGONI — Se intendiamo per statista un leader che non si limita ad affermare la propria prospettiva politica, ma è capace di far evolvere la situazione istituzionale e sociale di un Paese e i rapporti internazionali, penso che Moro questa definizione la meriti, anche se la sua opera di mediazione negli anni Settanta, con i profondi mutamenti in corso e la conseguente crisi delle culture politiche prevalenti, si fa sempre più difficile e faticosa. ROBERTO CHIARINI — Per me lo statista è un leader per il quale lo Stato viene prima dei partiti. Per Moro invece motore e pilastro della democrazia sono le forze politiche. Nel governare l’evoluzione dei partiti dimostra una grande visione strategica, ma il suo orizzonte è quello. Quanto alla «terza fase», nessuno sa che cosa sarebbe avvenuto dopo la solidarietà nazionale, ma va ricordato che infuriava la violenza politica e la Dc era sotto schiaffo per gli scandali e la sconfitta sul divorzio. Moro vuole riportare nelle istituzioni una dialettica politica che rischia di esplodere nelle piazze: apre ai comunisti per consolidare la democrazia, ma
credo che l’ipotesi dell’alternanza fosse fuori dal suo orizzonte, in quanto concepiva la Dc come una forza onnicomprensiva, dotata di un radicamento popolare anche tra i lavoratori, non riducibile a un polo moderato. Avvertiva l’esigenza di integrare nel gioco parlamentare la sinistra, ma in sostanza era un conservatore illuminato, mirava a salvaguardare un sistema minato dalle divaricazioni ideologiche.
PAOLO SODDU — Eppure anche La Malfa era convinto che Moro guardasse a una prospettiva di alternanza. A mio parere entrambi si erano accorti che le trasformazioni della società italiana, esplose con il Sessantotto, ri- chiedevano uno sblocco del sistema. Moro era anche stato accusato di fare l’occhiolino al radicalismo dei contestatori ma in realtà vedeva che per i partiti c’erano due sole possibilità: cambiare o perire. Infatti, con la segreteria affidata a Zaccagnini, tenta un’autoriforma della Dc, come la tenta Berlinguer nel Pci, poi Bettino Craxi nel Psi e Ciriaco De Mita ancora nella Dc. Ma tutti incontrano enormi resistenze e falliscono. Mentre le istituzioni repubblicane tutto sommato reggono, proprio i partiti si rivelano l’anello debole del sistema.
GUIDO FORMIGONI — Vorrei tornare sul linguaggio di Moro, considerato oscuro e involuto. In realtà le stesse «convergenze parallele» non sono farina del suo sacco, lui nel 1960 aveva parlato di «convergenze democra- tiche». Ma soprattutto la sua forma di comunicazione, certamente non immediata e televisiva, aveva una funzione pedagogica e, pur nella sua complessità, non era rivolta soltanto alla classe politica. In Puglia prendeva 200 mila preferenze girando tutti i paesi, con i contadini che accorrevano ai suoi discorsi, perché sapeva parlare anche a quel mondo.
ROBERTO CHIARINI — Vorrei precisare che ho grande considerazione di Moro. Non è certo l’esponente di una partitocrazia chiusa in sé stessa: avverto in lui il senso drammatico della responsabilità. Ma il suo linguaggio rispecchia una realtà in cui i giochi decisivi si fanno tra i partiti. D’altronde è logico: l’Italia degli anni Cinquanta è ancora imbevuta dell’eredità fascista e la democrazia si sedimenta proprio grazie ai partiti e al boom economico. Le alchimie verbali di Moro quindi non sono autoreferenziali, sono formule ingegnose che servono a sorreggere un sistema in equilibrio precario. Non a caso la Dc si affida a lui, che dal 1968 in poi era rimasto piuttosto isolato, verso la metà degli anni Settanta, quando la secolarizzazione dei costumi la mette in estrema difficoltà.
PAOLO SODDU — In quella fase non guarda a lui solo la Dc. Anche La Malfa, che nel 1971 aveva avversato la candidatura del leader pugliese al Quirinale, nel 1976 sonda la possibilità che Giovanni Leone si dimetta da presidente della Repubblica con l’obiettivo di favorire l’elezione di Moro a capo dello Stato. Anche da parte laica si vedeva in lui una personalità che doveva assumere un ruolo preminente per promuovere l’evoluzione del quadro politico.
Formigoni: voleva far progredire l’Italia senza perdere il consenso moderato Chiarini: frenò le spinte al cambiamento, gli mancava il coraggio di De Gasperi Soddu: ma negli anni 70 fece incisive riforme