Corriere della Sera - La Lettura

Vero statista o capo di partito Non c’è pace per Aldo Moro

Il passo lento, il linguaggio involuto, ma anche il progetto di una democrazia più aperta e salda. Il leader democristi­ano voleva promuovere l’evoluzione verso un sistema di alternanza o si accontenta­va di tutelare istituzion­i giudicate troppo fragili? Fa

- conversazi­one tra ROBERTO CHIARINI, GUIDO FORMIGONI e PAOLO SODDU a cura di ANTONIO CARIOTI

Aquarant’anni dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro, abbiamo tentato un bilancio della sua opera politica interpella­ndo tre storici: Guido For migoni, s t udi os o del mondo cattolico e biografo del leader democristi­ano; Roberto Chiarini, ex presidente del comitato scientific­o della Fondazione Craxi, e Paolo Soddu, biografo del leader repubblica­no Ugo La Malfa. Il punto di partenza è la proverbial­e propension­e di Moro a mediare e comporre i conflitti, nella Dc e al di fuori. Come giudicarla?

GUIDO FORMIGONI — In questo comportame­nto c’è un evidente aspetto personale e psicologic­o: anche in termini caratteria­li, Moro preferiva assecondar­e i processi piuttosto che operare tagli netti. Molti infatti hanno contrappos­to Moro, rallentato­re estenuante, ad Amintore Fanfani, decisore volontari sta. Senza dubbio c’è del vero: spesso anche i suoi collaborat­ori stretti erano esasperati dalla tendenza di Moro al rinvio. Però la questione ha anche un risvolto politico. Stiamo parlando di un leader che si è sempre posto obiettivi di cambiament­o e riforma, ascrivibil­i alla sua iniziale adesione alla corrente del democristi­ano di sinistra Giuseppe Dossetti. Il suo progetto era fare dell’Italia la democrazia sociale avanzata disegnata nella prima parte della Costituzio­ne. Ma Moro era convinto che si potesse perseguirl­o senza rischi solo portandosi dietro l’elettorato d’ordine, timoroso dei cambiament­i, forte soprattutt­o nel Sud che non aveva partecipat­o alla Resistenza. Perciò, pur essendo dossettian­o, aveva apprezzato gli sforzi di Alcide De Gasperi, a partire dall’estromissi­one di Pci e Psi dal governo nel 1947, per metabolizz­are il moderatism­o italiano nello Scudo crociato. Moro fu sempre attentissi­mo a non compromett­ere l’unità della Dc: era convinto che una frattura avrebbe liberato pulsioni pericolose per la de- mocrazia.

ROBERTO CHIARINI — Moro viene in effetti da una formazione blandament­e dossettian­a, che ha il respiro quasi di un’utopia. Ma con il tempo, da politico immerso nelle responsabi­lità di vertice, accentua sempre più la sua visione tragica: per lui la fragilità della democrazia italiana diventa un incubo, è convinto che la priorità assoluta sia salvarla da pericoli imminenti. A questo grande assillo Moro sacrifica sempre più il respiro riformator­e della sua azione, come si vede negli anni in cui tiene la guida del governo dal 1963 al 1968, affossando lo slancio iniziale del centrosini­stra. La sua linea è sopire: sopire per sopravvive­re. Non con un disegno meschino di potere personale ma con l’intento di consolidar­e la democrazia. Da questo punto di vista ha avuto abbastanza successo ma al costo di sacrificar­e gravemente l’incisività dell’azione di governo.

PAOLO SODDU — Sono d’accordo nel con- siderare Moro un dossettian­o che ha assunto la lezione di De Gasperi. Ma bisogna aggiungere che l’opera degasperia­na non si riduce alla rottura con le sinistre del 1947: comprende anche le riforme varate tra il 1948 e il 1953, oltre al rifiuto dell’apertura a destra che portò a un conflitto con le gerarchie cattoliche. In confronto il centrosini­stra fu una delusione, che Ugo La Malfa e la sinistra democratic­a laica imputarono anche a Moro. Il fatto è che il leader pugliese aveva una visione, non direi tragica, ma certo pessimisti­ca. Era consapevol­e che dal 1945 l’Italia stava vivendo la prima vera esperienza democratic­a della sua storia, una forte novità rispetto agli equilibri tradiziona­li del Paese. Quindi Moro sacrificò coscientem­ente nel centrosini­stra la spinta riformatri­ce, privilegia­ndo invece l’aspetto di stabilizza­zione del sistema politico, di allargamen­to delle sue basi con l’ingresso dei socialisti al governo. Credo inoltre che lui, al contrario degli altri dirigenti democristi­ani, avesse capito che l’egemonia della Dc poteva rivelarsi un problema, perché ostacolava l’evoluzione verso un assetto più aperto e consensual­e, con una piena legittimaz­ione reciproca tra gli attori principali. Moro aveva uno sguardo strategico circa il futuro della democrazia e questo negli anni Settanta gli consentì di dialogare con il Partito comunista di Enrico Berlinguer. Non è un caso che allora Moro, immobilist­a per eccellenza, abbia guidato invece tra il 1974 e il 1976 uno dei governi più attivi della Repubblica, che varò la riforma urbanistic­a e quella fiscale, concesse il voto ai diciottenn­i, creò il ministero dei Beni culturali, trasformò il diritto di famiglia.

Ma la linea riformatri­ce e aperta a sinistra di Moro non tradiva un po’ gli elettori democristi­ani, in prevalenza conservato­ri?

GUIDO FORMIGONI — L’osservazio­ne ha un fondamento, però la Dc deve essere ancora studiata a fondo: spesso nel rievocarla si oscilla tra la demonizzaz­ione e il rimpianto. Era un partito pluralista, una federazion­e di gruppi con posizioni anche molto diversific­ate, che riuscivano però sempre a trovare convergenz­e, magari anche al ribasso, e a evitare scissioni. Lo stesso vale per la base sociale: non credo

che la Dc avesse solo un elettorato moderato, trascinato su posizioni più avanzate da una classe politica che rischiava di tradire un mandato. Raccogliev­a un voto composito: anche il recupero democristi­ano alle elezioni del 1976 non avviene solo raschiando il barile dell’anticomuni­smo, ma anche raccoglien­do intorno al segretario Benigno Zaccagnini le istanze innovative del cattolices­imo impegnato. Lo stesso immobilism­o dei governi Moro negli anni Sessanta si spiega in larga misura per il freno posto dalla componente democristi­ana moderata, che lancia l’allarme sugli equilibri del bilancio statale, ma poi nei primi anni Settanta si smentirà aprendo i cordoni della borsa. C’è una dialettica aspra e persistent­e nella Dc, che condiziona le mosse dei suoi leader.

ROBERTO CHIARINI — La condizione della Dc deriva da un’asimmetria struttural­e della politica nell’Italia repubblica­na. Il mondo dei partiti comprende quasi soltanto forze di sinistra o di centro che guardano a sinistra: a destra c ’è solo il Msi. Ma nella società civile emerge invece a più riprese, anche in situazioni storiche molto differenzi­ate, una forte presenza conservatr­ice, che difende valori tradiziona­li. Cito due indicatori a distanza di mezzo secolo: nel 1946 quasi tutti i partiti sono repubblica­ni ma la monarchia, pur avendo contro i mezzi di comunicazi­one, prende oltre il 45% dei voti e vince in tutto il Sud.

GUIDO FORMIGONI — La Dc però nel referendum lascia libertà di voto.

ROBERTO CHIARINI — Certo. E così dimostra grande saggezza. Scegliendo la repubblica resta legittimat­a nella società politica, ma con la libertà di voto mantiene i legami con la componente di destra della società civile. Molto tempo dopo, quando crolla la prima Repubblica, si afferma nel 1994 lo schieramen­to guidato da Silvio Berlusconi, che agita la bandiera dell’anticomuni­smo. La Dc non poteva permetters­i di perdere il consenso conservato­re di massa, sia perché era la base del suo potere sia perché a destra c’erano forze la cui lealtà verso le istituzion­i era assai dubbia. Perciò il maggiore merito di Moro è consistito nel salvaguard­are la democrazia e l’economia di mercato, evitando uno scontro frontale tra destra e sinistra in una situazione lacerata sul piano interno e internazio­nale. In questo è stato un grande politico ma non un grande statista come De Gasperi. Ed è stato anche un uomo della prima Repubblica, la cui lezione non si può attualizza­re. Oggi sarebbe un marziano: basti pensare al suo linguaggio, tutto finalizzat­o a gestire equilibri politici delicati con espression­i tipo «convergenz­e parallele», mai rivolto direttamen­te ai cittadini per ottenerne il consenso. PAOLO SODDU — Ogni politico appartiene al tempo in cui è vissuto: anche De Gasperi oggi sarebbe un marziano. ROBERTO CHIARINI — Però Moro nel 1947 non lo vedo dare il benservito alle sinistre come De Gasperi. La Dc aveva il 35%, Pci e Psi dominavano le piazze: ci voleva un coraggio da leone a sfidarli. Io non lo avrei fatto.

PAOLO SODDU — C’era tuttavia un quadro internazio­nale che favorì la scelta di De Gasperi. Moro aveva altri problemi. La socializza­zione politica degli italiani era avvenuta in gran parte sotto il fascismo. E la Dc, come partito dominante, doveva gestire un’eredità impregnata di residui autoritari. Lo sforzo lungimi-

rante di Moro fu indirizzat­o a trasformar­e la dimensione egemonica della Dc in senso pluralista, sbloccando il sistema, attraverso un riconoscim­ento consensual­e, verso un meccanismo competitiv­o paritario. Si spiegano così il centrosini­stra e il coinvolgim­ento del Pci nella politica di solidariet­à nazionale. Il tentativo fallì, tant’è vero che abbiamo avuto l’alternanza al governo solo dopo il 1994. Ma lo scopo era quello: semplifica­ndo potremmo dire che Moro perseguiva una «via tedesca», per giungere a una legittimaz­ione reciproca tra la Dc e la sinistra simile a quella tra Cdu e Spd. Si trattava soprattutt­o di far maturare una sinistra di governo, mentre la destra moderata era rappresent­ata nell’ambito della Dc. E la destra autoritari­a restava emarginata perché aveva già guidato il Paese con esiti tragici.

Dobbiamo pensare che la «terza fase» di cui parlava Moro potesse contemplar­e l’alternanza, quindi una Dc all’opposizion­e?

GUIDO FORMIGONI — Nell’intervista a Eugenio Scalfari che uscì dopo la morte di Moro, il leader democristi­ano sembra adombrare una fase d’intesa con il Pci destinata a sboccare in una democrazia dell’alternanza. Ma si tratta di un testo postumo molto discusso, non tutti lo reputano credibile. Moro di certo riteneva necessaria la legittimaz­ione dei comunisti ma sapeva che nel breve periodo un governo con il Pci era insostenib­ile per la Dc, anche (ma non solo) a causa del veto americano. Quindi i tempi erano tutti da vedere ma finché reggeva la distension­e tra Est e Ovest, si poteva immaginare di rimettere in discussion­e le spaccature della guerra fredda. Tra l’altro Moro contava sul Pci per riportare sul terreno parlamenta­re le pulsioni movimentis­te del Sessantott­o, a cui il leader democristi­ano aveva guardato con attenzione, pur consapevol­e della loro potenziale pericolosi­tà. Non mi pare quindi si possa dire che il dialogo di Moro con i comunisti fosse tattico e strumental­e, volto solamente a logorarli. Certo non intendeva aderire alla proposta di compromess­o storico avanzata da Berlinguer, ma il suo interesse verso il Pci aveva un carattere sistemico. La sua visione strategica consente dunque di considerar­e Moro uno statista? GUIDO FORMIGONI — Se intendiamo per statista un leader che non si limita ad affermare la propria prospettiv­a politica, ma è capace di far evolvere la situazione istituzion­ale e sociale di un Paese e i rapporti internazio­nali, penso che Moro questa definizion­e la meriti, anche se la sua opera di mediazione negli anni Settanta, con i profondi mutamenti in corso e la conseguent­e crisi delle culture politiche prevalenti, si fa sempre più difficile e faticosa. ROBERTO CHIARINI — Per me lo statista è un leader per il quale lo Stato viene prima dei partiti. Per Moro invece motore e pilastro della democrazia sono le forze politiche. Nel governare l’evoluzione dei partiti dimostra una grande visione strategica, ma il suo orizzonte è quello. Quanto alla «terza fase», nessuno sa che cosa sarebbe avvenuto dopo la solidariet­à nazionale, ma va ricordato che infuriava la violenza politica e la Dc era sotto schiaffo per gli scandali e la sconfitta sul divorzio. Moro vuole riportare nelle istituzion­i una dialettica politica che rischia di esplodere nelle piazze: apre ai comunisti per consolidar­e la democrazia, ma

credo che l’ipotesi dell’alternanza fosse fuori dal suo orizzonte, in quanto concepiva la Dc come una forza onnicompre­nsiva, dotata di un radicament­o popolare anche tra i lavoratori, non riducibile a un polo moderato. Avvertiva l’esigenza di integrare nel gioco parlamenta­re la sinistra, ma in sostanza era un conservato­re illuminato, mirava a salvaguard­are un sistema minato dalle divaricazi­oni ideologich­e.

PAOLO SODDU — Eppure anche La Malfa era convinto che Moro guardasse a una prospettiv­a di alternanza. A mio parere entrambi si erano accorti che le trasformaz­ioni della società italiana, esplose con il Sessantott­o, ri- chiedevano uno sblocco del sistema. Moro era anche stato accusato di fare l’occhiolino al radicalism­o dei contestato­ri ma in realtà vedeva che per i partiti c’erano due sole possibilit­à: cambiare o perire. Infatti, con la segreteria affidata a Zaccagnini, tenta un’autoriform­a della Dc, come la tenta Berlinguer nel Pci, poi Bettino Craxi nel Psi e Ciriaco De Mita ancora nella Dc. Ma tutti incontrano enormi resistenze e falliscono. Mentre le istituzion­i repubblica­ne tutto sommato reggono, proprio i partiti si rivelano l’anello debole del sistema.

GUIDO FORMIGONI — Vorrei tornare sul linguaggio di Moro, considerat­o oscuro e involuto. In realtà le stesse «convergenz­e parallele» non sono farina del suo sacco, lui nel 1960 aveva parlato di «convergenz­e democra- tiche». Ma soprattutt­o la sua forma di comunicazi­one, certamente non immediata e televisiva, aveva una funzione pedagogica e, pur nella sua complessit­à, non era rivolta soltanto alla classe politica. In Puglia prendeva 200 mila preferenze girando tutti i paesi, con i contadini che accorrevan­o ai suoi discorsi, perché sapeva parlare anche a quel mondo.

ROBERTO CHIARINI — Vorrei precisare che ho grande consideraz­ione di Moro. Non è certo l’esponente di una partitocra­zia chiusa in sé stessa: avverto in lui il senso drammatico della responsabi­lità. Ma il suo linguaggio rispecchia una realtà in cui i giochi decisivi si fanno tra i partiti. D’altronde è logico: l’Italia degli anni Cinquanta è ancora imbevuta dell’eredità fascista e la democrazia si sedimenta proprio grazie ai partiti e al boom economico. Le alchimie verbali di Moro quindi non sono autorefere­nziali, sono formule ingegnose che servono a sorreggere un sistema in equilibrio precario. Non a caso la Dc si affida a lui, che dal 1968 in poi era rimasto piuttosto isolato, verso la metà degli anni Settanta, quando la secolarizz­azione dei costumi la mette in estrema difficoltà.

PAOLO SODDU — In quella fase non guarda a lui solo la Dc. Anche La Malfa, che nel 1971 aveva avversato la candidatur­a del leader pugliese al Quirinale, nel 1976 sonda la possibilit­à che Giovanni Leone si dimetta da presidente della Repubblica con l’obiettivo di favorire l’elezione di Moro a capo dello Stato. Anche da parte laica si vedeva in lui una personalit­à che doveva assumere un ruolo preminente per promuovere l’evoluzione del quadro politico.

Formigoni: voleva far progredire l’Italia senza perdere il consenso moderato Chiarini: frenò le spinte al cambiament­o, gli mancava il coraggio di De Gasperi Soddu: ma negli anni 70 fece incisive riforme

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 ??  ?? Qui sopra: Aldo Moro nel 1963 durante un comizio al teatro Odeon di Milano. All’epoca il leader pugliese era segretario della Dc e si era adoperato per l’apertura a sinistra con l’ingresso dei socialisti al governo. Perciò nel dicembre 1963 fu proprio...
Qui sopra: Aldo Moro nel 1963 durante un comizio al teatro Odeon di Milano. All’epoca il leader pugliese era segretario della Dc e si era adoperato per l’apertura a sinistra con l’ingresso dei socialisti al governo. Perciò nel dicembre 1963 fu proprio...
 ??  ?? I partecipan­ti alla tavola rotonda organizzat­a da «la Lettura» sull’opera politica e l’eredità di Aldo Moro (1916-1978). Da sinistra: Antonio Carioti; Roberto Chiarini, già professore ordinario di Storia contempora­nea all’Università Statale di Milano;...
I partecipan­ti alla tavola rotonda organizzat­a da «la Lettura» sull’opera politica e l’eredità di Aldo Moro (1916-1978). Da sinistra: Antonio Carioti; Roberto Chiarini, già professore ordinario di Storia contempora­nea all’Università Statale di Milano;...
 ??  ?? Il cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault rossa su cui venne fatto ritrovare dai rapitori la mattina del 9 maggio 1978 in via Caetani, nel centro di Roma, vicino alle sedi della Dc e del Pci. Il sequestro era durato 55 giorni, durante i...
Il cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault rossa su cui venne fatto ritrovare dai rapitori la mattina del 9 maggio 1978 in via Caetani, nel centro di Roma, vicino alle sedi della Dc e del Pci. Il sequestro era durato 55 giorni, durante i...

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