Corriere della Sera - La Lettura

Stato impreparat­o e brigatisti ottusi Ma sul sequestro restano lati oscuri

Via Gradoli, il falso comunicato, il ruolo del Papa

- Di GIOVANNI BIANCONI

Le Brigate rosse hanno spezzato il progetto politico di Aldo Moro senza dargli alcun peso. Per loro era tutto uguale, tutto ricompreso nella formula del «regime democristi­ano» di cui l’ostaggio era «gerarca indiscusso», come scrissero nel primo comunicato subito dopo il sequestro. Una visione del trentennio senza soluzione di continuità e senza differenza tra le strategie di De Gasperi, Dossetti, Moro, Fanfani o chiunque altro. Interrompe­re il percorso della solidariet­à nazionale non era diverso dall’ostacolare il governo di centrodest­ra che seguì la stagione del centrosini­stra, o qualsiasi altro passaggio politico. Del resto, nella narrazione brigatista, Moro valeva Andreotti o Fanfani; volevano rapire uno dei tre, considerat­i i principali simboli del potere tout court, senza distinzion­i di ruoli o di visioni politiche. Solo che Andreotti, come capo del governo, era troppo scortato, e Fanfani, rieletto presidente del Senato nel 1976, si era trasferito nel centro di Roma, troppo presidiato dalle forze dell’ordine.

La scelta dell’obiettivo

Così rapirono il presidente della Dc, che abitava in una zona periferica, faceva più o meno sempre gli stessi percorsi e sembrava un obiettivo abbordabil­e. Una scelta quasi casuale, quindi. E già questa, a voler scavare tra misteri e non-detti, è una prima questione: fu davvero solo «tecnica» la ragione della scelta o dietro c’era qualcos’altro che i brigatisti non hanno voluto rivelare, o addirittur­a qualcosa di più e di diverso dalle Br? Perché di fatto la solidariet­à nazionale, il progetto politico disegnato da Moro per l’Italia uscita dalle urne con due vincitori (Dc e Pci) morì la mattina stessa in cui doveva nascere in Parlamento, il 16 marzo 1978 in via Fani, insieme ai due carabinier­i e tre poliziotti di scorta. Sterminati da un commando di dieci brigatisti: operai, impiegati, studenti, un contadino, una maestra d’asilo. Con il rapimento di Moro infersero un colpo mortale alla sua politica, sebbene a loro interessas­se sfidare la Dc in quanto tale, il partito-Stato. Ma per altri protagonis­ti nazionali e internazio­nali di quell’epoca, poteva non essere indifferen­te che l’azione brigatista si dirigesse proprio verso Moro e facesse abortire il suo progetto. Altri che non necessaria­mente dovevano trovarsi in via Fani, ché dopo quarant’anni di indagini e congetture, al di là di suggestion­i e testimonia­nze confuse o contraddet­te, prove reali di presenze sospette sul luogo del delitto non ce ne sono. Né le nuove indagini giudiziari­e e parlamenta­ri sono arrivate a dare un significat­o diverso a quello che è accaduto.

La «zona grigia» delle connivenze

La commission­e d’inchiesta che ha impegnato deputati e senatori della legislatur­a appena conclusa ha forse scoperchia­to nuove complicità e connivenze dell’epoca con i brigatisti, ma si tratta ancora di simpatiz-

zanti che hanno offerto protezioni o coperture agli assassini di Moro, non agenti segreti al servizio di Stati esteri o forze occulte (quanto meno non ce n’è la prova). Del resto, dopo qualche lustro fu finalmente dato un nome e un volto al quarto carceriere di Moro, si scoprì che era un carpentier­e militante della sinistra rivoluzion­aria di quella stagione, peraltro già transitato dalle patrie galere. Niente di più, e niente a che vedere con spie venute da oltrecorti­na o misteriosi personaggi «intellettu­almente superiori» di cui s’era teorizzato. Ed è presumibil­e che altre eventuali rivelazion­i su altri eventuali complici o fiancheggi­atori delle Br rimangano confinate in quell’area grigia che ancora, a quarant’anni di distanza, può riservare sorprese. Nonostante fin da allora gli investigat­ori avessero elementi concreti per provare ad affondare le mani in certi ambienti, ma non sempre seppero o vollero farlo.

Come quando, a fine marzo 1978, arrivò la segnalazio­ne su un gruppo di universita­ri tra cui si nascondeva­no i brigatisti che tennero in custodia la Renault rossa utilizzata per consegnare il cadavere di Moro il 9 maggio. Ma la segnalazio­ne rimase inspiegabi­lmente ferma per oltre un mese, e solo dopo l’esecuzione della condanna a morte del prigionier­o le indagini diedero i primi frutti.

Istituzion­i disarmate

Nel 1978 le Br esistevano già da otto anni, avevano ferito e ucciso, i loro capi storici erano sotto processo a Torino, molti erano latitanti, ma quando portarono via Moro lo Stato si scoprì quasi inerme di fronte all’attacco sferrato dai terroristi, che apparivano invisibili e inafferrab­ili. Quarant’anni dopo s’è chiarito che erano sempliceme­nte quel che dicevano di essere, in tutta la loro inadeguate­zza e vulnerabil­ità. Solo che sul momento apparirono fortissimi contro l’impotenza delle istituzion­i. Che si arroccaron­o sulla «linea della fermezza» per difendere sé stesse, ma senza mettere in campo alcuna strategia che potesse portare a una soluzione diversa dalla restituzio­ne di un cadavere.

Forse il più grande mistero insoluto del caso Moro è proprio questo: perché lo Stato si presentò tanto disarmato al tragico appuntamen­to di via Fani? E perché, nei successivi 55 giorni, rimase paralizzat­o senza riuscire a immaginare un esito differente da quello annunciato poche ore dopo il sequestro nei comunicati brigatisti e nelle risposte istituzion­ali?

Gradoli e il lago della Duchessa

L’inconsiste­nza delle indagini fu già allora — e resta ancora oggi — sotto gli occhi di tutti. Ma a renderla più drammatica ci sono episodi sconcertan­ti, come quello di via Gradoli e il falso comunicato numero 7 delle Br. Della seduta spiritica a cui avrebbe partecipat­o il futuro premier Romano Prodi, dalla quale venne l’indicazion­e di Gradoli, si è detto molto. Chi vuole può crederci, ma si tratta di una versione così surreale che chi ne dubita ha il pieno diritto di farlo. Tuttavia il vero mistero non è tanto da chi arrivò realmente la soffiata (un altro elemento della zona grigia rimasta in ombra?), ma l’uso che se ne fece. Perché Gradoli era una pista corretta, giacché nella strada di Roma che portava quel nome c’era il covo brigatista dove abitava il «regista» di tutta l’operazione Moro: Mario Moretti.

Solo che la polizia andò a perlustrar­e il paese di Gradoli, in provincia di Viterbo, naturalmen­te senza alcun esito, anziché bussare alla porta dell’appartamen­to di via Gradoli, peraltro già visitato (ma nessuno aprì, e il controllo si concluse così) due giorni dopo la strage di via Fani. Quello che rivelò la signora Eleonora Moro al processo sotto giuramento — cioè che lei consigliò di verificare se esistesse una via Gradoli, ma i responsabi­li delle indagini le dissero di aver già consultato lo stradario e accertato che non c’era, mentre invece c’era eccome — resta un altro mistero. Quasi quanto la tardiva scoperta del covo brigatista, a sequestro in corso: la doccia lasciata aperta con conseguent­e allagament­o della casa al piano di sotto, intervento dei pompieri, ritrovamen­to di armi e documenti nell’appartamen­to vuoto. Poi la notizia venne subito venduta ai telegiorna­li, con relativo avviso ai terroristi, che evitarono ovviamente di tornare a casa e cadere nelle mani degli inve-

La seduta spiritica Il nome della via di Roma dove abitava Moretti, organizzat­ore del rapimento, emerse in una seduta spiritica a cui partecipò Prodi. La polizia andò a perlustrar­e il paese omonimo in provincia di Viterbo

stigatori. Fu davvero solo un miscuglio di casualità e imperizia, o ci fu dell’altro?

Tra l’altro, tutto avvenne lo stesso giorno, 18 aprile, in cui fu fatto ritrovare il falso comunicato numero 7 delle Br, che annunciava l’esecuzione della condanna a morte con il cadavere di Moro gettato nel lago della Duchessa, ai confini tra Lazio e Abruzzo, totalmente ghiacciato. Un falso evidente, a cui inspiegabi­lmente il ministro dell’Interno Francesco Cossiga e alti magistrati diedero credito per parecchie ore, di cui ci sono tracce sull’autore (un falsario romano con qualche legame con malavitosi di vario calibro e opachi apparati istituzion­ali), ma non sui mandanti.

Le lettere e le trattative

Dalla «prigione del popolo» Moro provò a dare suggerimen­ti rimanendo inascoltat­o, e anzi declassato a una vittima che non si voleva arrendere al proprio destino. Le sue lettere furono subito liquidate come «non moralmente ascrivibil­i» allo statista riconosciu­to come tale fino alla mattina del 16 marzo. Le stesse Br decisero di depotenzia­rne non la fonte, ma il contenuto, decidendo di renderle subito pubbliche, contro l’esplicita richiesta di Moro, così indebolend­o ogni eventuale spiraglio di trattativa. Spiegarono che nulla doveva essere nascosto al popolo e di non voler entrare in oscure manovre di palazzo, ma c’è chi la ritiene una spiegazion­e troppo semplice e ingenua, servita solo a non ostacolare un esito già deciso, cosicché anche questo resta un punto interrogat­ivo.

Poco dopo il tragico epilogo del sequestro, venne fuori il tentativo avviato dai socialisti di contattare i carcerieri di Moro attraverso un personaggi­o di confine tra Autonomia operaia e Br, che però si scontrò con l’intransige­nza dei capi brigatisti: iniziative ambigue o passi laterali non sarebbero serviti a niente, dissero, a loro interessav­a solo il pieno e chiaro «riconoscim­ento politico» da parte della Dc, nient’altro. Nella imprevista telefonata alla signora Moro, Moretti era stato fin troppo chiaro, esplicitan­do la quasi-ossessione brigatista: loro volevano far capitolare il partito-Regime attraverso una netta e precisa presa di posizione del vertice democristi­ano. Tutto il testo non gli interessav­a. Né le Nazioni Unite, scese in campo attraverso il segretario generale Kurt Waldheim, né Amnesty Internatio­nal, né il Vaticano né il Papa.

Vaticano e palestines­i

Anche al di là del Tevere ci furono tentativi di smuovere le acque e scavalcare la fermezza della politica italiana, fino al noto riscatto di svariati miliardi di lire che Paolo VI avrebbe raccolto nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo. Non servì a nulla, come non servì la lettera indirizzat­a dal Papa agli «uomini delle Brigate rosse», che il governo probabilme­nte temeva e su cui Andreotti ebbe un confronto con monsignor Agostino Casaroli, futuro segretario di Stato e allora molto vicino a Paolo VI, prima che la lettera venisse divulgata con quella famosa preghiera: liberate Moro «senza condizioni». Dagli elementi raccolti dall’ultima commission­e parlamenta­re risulta che il governo venne pure informato dei contatti tra servizi segreti e organizzaz­ioni palestines­i che si erano offerte di provare a salvare la vita dell’ostaggio, ma fece in modo che il negoziato non prendesse forma. Non a caso Moro insisté su quel tasto nei suoi appelli dalla prigione, sempre più accorati ma ugualmente inascoltat­i; parlò di trattative segrete sul terrorismo mediorient­ale, già andate in porto, e l’intero establishm­ent finse di non capire. Compreso chi non poteva non sapere.

Al fondo restano i due muri costruiti da Stato e Br, che hanno indirizzat­o gli eventi fino ai colpi mortali della mitragliet­ta Skorpion. Sparati — nelle intenzioni degli assassini — contro il partito-Stato, che invece è sopravviss­uto a Moro e ai suoi assassini per altri quindici anni, con tutt’altra guida e linea politica. Piombo cieco contro un potere sordo alle indicazion­i del suo rappresent­ante finito sotto processo per conto di tutti gli altri, ma destinatar­io di una condanna a morte che è valsa solo per lui.

Papa Paolo VI si rivolse alle Br con una lettera, chiese di liberare l’ostaggio «senza condizioni». I terroristi invece pretendeva­no da parte della Dc un esplicito «riconoscim­ento politico» che non potevano avere

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