Corriere della Sera - La Lettura
Manifesto per un teatro sexy
Come sta il teatro italiano? Com’è la sua salute: quella artistica e culturale, ma anche quella sociale e politica? In realtà non appare una situazione eccellente, dice Franco Cordelli. Il nuovo regolamento approvato nel 2014 non sembra aver portato miglioramenti: da una parte c’è l’élite, una piccola quantità di operatori privilegiati dalle istituzioni pubbliche in modo sproporzionato e apparentemente casuale; dall’altra c’è una quantità crescente di teatranti il cui scopo è la sopravvivenza, che rischia di tradursi fatalmente in una serie di proposte scadenti, previste (diciamo così) per incontrare un presunto gusto del pubblico. I dislivelli di ogni genere ci sono sempre stati, oggi sembrano eccessivi e dannosi, aggiunge Cordelli. Se si leggono i tamburini dei teatri di Roma, i titoli rivelano il degrado dell’offerta. Ma i programmi dei Teatri Nazionali, invece di immaginare proposte organiche, come sarebbe loro compito e possibilità, risultano anch’essi frammentari e casuali. Per parlarne «la Lettura» ha invitato alcuni tra i registi, meno giovani e giovani, che sembrano offrire una più chiara e innovativa ragione del proprio impegno artistico. Qualcuno non ha potuto essere presente per ragioni di lavoro — Romeo Castellucci, Emma Dante, Roberto Latini. Partecipano al forum: Enrico Castellani (con Valeria Raimondi dirige Babilonia Teatri, una delle più interessanti realtà del teatro di ricerca), Elio De Capitani (fondatore e tra i responsabili dell’Elfo di Milano), Lisa Ferlazzo Natoli (figlia d’arte, sta percorrendo in modo originale le tracce del padre Lisi, uno dei protagonisti dell’avanguardia degli anni Settanta), Enrico Frattaroli (ha messo in scena Joyce, Sade, Christa Wolf e Sarah Kane, la drammaturga morta suicida a 27 anni il 20 febbraio 1999), Jacopo Gassmann (un altro figlio d’arte, ha portato in Italia alcuni dei nomi più sorprendenti della drammaturgia anglosassone), Chiara Lagani (ha fondato Fanny & Alexander, una compagnia che esplora da sempre letteratura, musica e arti visive), Antonio Latella (lavora a Berlino, dirige la Biennale Teatro di Venezia), Marco Paolini (una delle voci più note del teatro di narrazione).
FRANCO CORDELLI — Il nuovo decreto del 2014 sul teatro ha provocato una serie di difficoltà. In sostanza si ha l’impressione che il criterio di quantità (numero di repliche, di spettatori, di attori e maestranze) abbia oscurato l’idea stessa di qualità. Ha reso più difficile fare teatro e lo ha gerarchizzato in modo drastico. Il paradosso è che la produzione invece d’essere diminuita sembra in crescita. Di teatro se ne fa troppo, lo fa chiunque, distinguere tra buono e cattivo teatro sta diventando difficile come quando si entra in libreria. Ciò che vediamo, invece d’essere migliore a me sembra scivolare velocemente verso il dilettantesco, l’amatoriale.
ELIO DE CAPITANI — Ognuno si arrangia e si adatta per rimanere vivo. E se per essere vivo deve fare quattro spettacoli in un anno, concorrere a quattro bandi, partecipare a quattro festival... bene così.
ANTONIO LATELLA — Il processo creativo non è legato al numero di spettacoli messi in scena. Il processo creativo è un percorso personale: alcune volte senti il bisogno di fare tre o quattro spettacoli, magari anche sa-
pendo che due li farai male, ma fanno parte di un itinerario di ricerca; altre volte un autore ha bisogno di tre, quattro anni per trovare la propria voce. Ho visto registi mettere in scena quattro capolavori in un anno e poi perdersi. Ognuno ha la sua storia: io sono figlio di operai, mio padre si alzava tutte le mattine per andare a lavorare. È quello che faccio anch’io.
ELIO DE CAPITANI — Anche a me è capitato di dirigere alcuni spettacoli sull’onda di un’urgenza, per esempio Il lago, un progetto di passaggio fondamentale per la nostra compagnia dell’Elfo — se non l’avessimo fatto non saremmo diventati quello che siamo. Eppure non è stato apprezzato né dal pubblico né dalla critica. Tuttavia resta un passaggio fondamentale. Capita a tutti: ci sono spettacoli non belli, forse talvolta persino brutti, che sono un punto di svolta. Dove sta andando il teatro italiano?
JACOPO GASSMANN — Siamo indietro rispetto ad altre realtà. Lo siamo per le possibilità economiche, la gestione delle risorse, le leggi sul teatro, ma anche per la
visione culturale. Non manca il talento qui da noi, anzi ne abbiamo più di chiunque — e questo è giusto dirlo — ma ci sono troppe storture insanabili nel sistema. FRANCO CORDELLI — Spiegati meglio, Jacopo.
JACOPO GASSMANN — Primo: c’è un tappo generazionale. In qualunque altro Paese un regista ventenne o trentenne di talento può guadagnarsi da vivere facendo teatro; da noi un giovane fa teatro, se riesce a farlo, rimettendoci di tasca propria. Secondo: la tirannia del nome. In tanto teatro anglosassone si va a teatro, anzi si corre a teatro, per scoprire un autore nuovo; da noi non c’è la voglia di «rischiare», il piacere della scoperta. Le produzioni inseguono i nomi noti in cartellone, meglio se presi in prestito dalla televisione. Io cerco di lavorare su autori nuovi, possibilmente inediti nel nostro Paese. Amo gli autori che anzitutto mi pongono delle domande a cui non so rispondere, che scavano nelle ferite aperte del nostro tempo. Penso ai testi e agli autori affrontati in questi anni: da Juan Mayorga a Chris Thorpe, fino a Disgraced di Ayad Akhtar, che porteremo in scena a Roma e a Milano a marzo.
ENRICO FRATTAROLI — Un’arte di cui sia decifrabile il futuro è un’arte senza senso. Detto questo, dobbiamo riconoscere che il teatro segue, assai prevedibilmente, la direzione di sempre. Cioè: ristagna nelle stesse pozze in cui il Dna istituzionale, la matrice sociale, il codice culturale lo irretiscono e lo inducono a restare. Solo questo gli consente di sopravvivere. Al teatro italiano manca tutto quello che dovrebbe renderlo imprevedibile. Manca un modo serio di finanziarlo, di trattarlo come necessario, senza rendergli la vita difficile. La vessazione è la forma di potere preferita dalle nostre istituzioni.
JACOPO GASSMANN — Credo che il teatro italiano, come il Paese stesso, sia ontologicamente un organismo in perenne crisi. E lo dico pensando a un certo stato di malessere diffuso, economico e creativo, ma anche alle possibilità trasformative e rigenerative della crisi. Da spettatore, le cose più interessanti che ho visto in questi anni sono state operazioni al di fuori dei grandi circuiti, laddove ho ravvisato non solo talento, vitalità ed energie creative, ma anche una certa urgenza nel fare teatro. Ha ragione Cordelli quando dice che la vita di un regista che lavora troppo, che fa troppe regie, può consumarsi molto in fretta, fino quasi a rimetterci la salute — aggiungo — in certi casi la vita stessa. Ma penso anche che la vita di un regista, o di un artista, in Italia, fra parole e promesse evaporate e fondi non pervenuti o rimandati all’infinito, può spesso prosciugarsi nell’attesa.
ENRICO CASTELLANI — Il teatro italiano sembra incapace di occuparsi del suo tempo. Spesso ci sfugge quale sia la sua pubblica funzione, nel momento in cui continua a scivolare nell’intrattenimento. Sembra un teatro museale. Sono consapevole dell’importanza dei musei e della storia che racchiudono, ma sono convinto che il teatro abbia il dovere e il compito di sporcarsi le mani con il presente. Il teatro italiano sembra preoccupato più di ogni altra cosa della sua sopravvivenza: se non apriamo gli occhi davanti a questo dato di fatto finiremo in un vicolo cieco e nessuno verrà a salvarci. Se il teatro non torna a essere luogo di relazione, di scambio, di vita chiuderemo il sipario per l’ultima volta senza neanche esserci accorti che non c’era nessuno ad assistere alla nostra fine. Un requiem per il teatro italiano...
ENRICO CASTELLANI — Manca prima di tutto la consapevolezza di aver perso il proprio ruolo di iniettore dialettico. Mancano luoghi, direttori, artisti che credano fermamente che il teatro possa e debba aprirsi al mondo. Manca, ha ragione Gassmann, un reale ricambio generazionale, anche se dei segnali — timidi, contradditori, ancora eccessivamente minoritari — hanno fatto la loro comparsa all’orizzonte. Manca un pubblico nuovo. Manca una rete di relazioni tra teatri, artisti, società civile in grado di far uscire il teatro dal suo individualismo, dalla sua autoreferenzialità, dai suoi personalismi.
CHIARA LAGANI — In realtà il teatro italiano attraversa, come tutti gli altri mondi, una fase di grande disorientamento. Allora la domanda è questa: perché nel 2018 dovremmo continuare ad andare a teatro? Perché investire così tante energie, capitali, intere vite, nella realizzazione di un progetto? Di fronte alle mille forme di intrattenimento che ci sollecitano, molte praticate nel
chiuso delle nostre case, il teatro ha esaurito la sua funzione sociale? È una forma residuale, in via di estinzione? Il pubblico esiste ancora? E la risposta qual è? CHIARA LAGANI — Siamo travolti da una forma diffusa di teatralizzazione del mondo in cui la rappresentazione spesso prende il posto della realtà. Se tutto è teatralizzato, il teatro che cosa deve fare?
ENRICO CASTELLANI — Aggiungerei che manca al teatro un contesto culturale di cui essere parte attiva e integrante. Un contesto in cui il teatro venga percepito, da una parte, come risorsa artistica in grado di essere motore di riflessione sul nostro tempo e, dall’altra, come risorsa capace di creare lavoro. Manca la convinzione che sappiamo esprimere un pensiero sul mondo anche senza ricorrere sempre a testi e autori noti. Manca un’apertura e un interesse reale e diffuso nei confronti dei nuovi autori, della nuova drammaturgia, dei nuovi linguaggi.
LISA FERLAZZO NATOLI — Vorrei proporvi un gioco e leggervi quello che mi ha scritto qualche tempo fa un caro amico teatrante al quale chiedevo le stesse cose: «Al teatro italiano mancano: 1. produttori appassionati; 2. tempo per fare le prove; 3. nuovi drammaturghi; 4. attori anziani disposti a tramandare esperienze; 5. apprendistato per attori e maestranze; 6. scuole di taglio e costumi nei teatri nazionali; 7. artisti che guidino la direzione artistica dei teatri; 8. la fame e la passione; 9. le cantine dove fare e sperimentare la fame e la passione; 10. l’alcol e la droga, le attrici zoccole e gli attori rompicoglioni, è tutto troppo educato e borghese e prudente». Ora, se vogliamo essere seri, direi che innanzitutto mancano investimenti. È di certo mancata a lungo una nuova legge sul teatro. In generale credo anche che manchi tempo, cioè la possibilità di consentire agli artisti di sbagliare. Manca poi un lavoro di formazione del pubblico: questo significa che i cittadini italiani dovrebbero sentire come
cosa propria il teatro, almeno quanto sentono come cosa propria il Parlamento.
CHIARA LAGANI — Il teatro è forse una delle ultime pratiche comunitarie esistenti: persone che decidono di organizzare una parte del proprio tempo per spostarsi fisicamente e recarsi in un luogo dove incontrarsi e condividere quell’esperienza. A differenza di molte altre arti, il teatro non esiste nemmeno al di fuori di questa condizione. Questa dovrebbe essere oggi una ragione sufficiente per proteggerlo. Come si fa con gli animali in via di estinzione o con gli alberi millenari. Abbiamo detto qui che mancano i soldi, manca un contesto culturale, manca una politica illuminata, manca un pubblico, mancano operatori e critici attenti… In parte questo è vero ma non è sufficiente a spiegare la natura della crisi. Forse, qualcosa che davvero manca, in un’epoca in cui ci opprime, anche a ragione, un sordo e diffuso senso di paura e di fine, è un po’ più di coraggio. Da parte di tutti.
LISA FERLAZZO NATOLI — In realtà a me sembra che ci sia un certo numero di splendidi drammaturghi che sta restituendo vitalità al teatro e alla lingua italiana. Penso per esempio a Lucia Calamaro e Armando Pirozzi. Sulla nuova drammaturgia credo si debba finalmente lavorare a fondo, anche perché l’Italia ha una sua peculiarità nell’altissimo numero di attori-autori che probabilmente risale alla tradizione del capocomicato fino a Eduardo De Filippo. Non a caso se parlo del mio lavoro di regista mi capita spesso di dire: “Sono piuttosto un vigile che organizza e smista parole, corpi, immaginazioni e direzioni”. Insomma un detonatore, il mio compito è innescare un tema, un testo, un processo che — anche quando c’è un testo preesistente — saranno gli attori a riscrivere e di fatto a «mettere in vita».
JACOPO GASSMANN — Ho studiato molto all’estero: in Inghilterra e in America. Nelle nostre scuole, nei licei — quando va bene — il teatro viene solamente studiato e letto, spesso fastidiosamente imposto. Il teatro a una certa età va soprattutto fatto. In Inghilterra e negli Stati Uniti, Paesi più concreti del nostro, il teatro a scuola viene introdotto come un gioco. Il tempo dello studio, dell’approfondimento subentra dopo, su un terreno già predisposto. Questo creerà fisiologicamente generazioni di spettatori più entusiasti e meno timorosi o precocemente esausti e annoiati dall’idea stessa di teatro. Forse il teatro ha anche un deficit genetico: si presenta — o è percepito — come elitario.
ELIO DE CAPITANI — Qui a Milano è nata nel dopoguerra l’idea di teatro pubblico con il motto del Piccolo “Un teatro d’arte per tutti”, l’idea di un teatro come servizio pubblico. Un’arte che non si rivolge a qualcuno in particolare ma vuole essere accessibile a tutti. Costruire questa civiltà non è stato facile, abbiamo dovuto resistere anche ad anni molto difficili, c’è stato un tempo in cui questa città ha perduto la sua anima, si sono susseguite giunte leghiste e di destra ma il teatro ha resistito compatto. C’è stata una stagione in cui i copioni dovevano essere sottoposti a un’approvazione preventiva: tutti i teatri di Milano si sono riuniti e questa minaccia in due giorni è rientrata. Però questo mi porta a ricordare che l’Italia è un Paese di città. E le realtà sono abbastanza diverse. A Milano c’è una situazione vivace: la verifica sociale dell’arte ancora avviene, nel senso che, bene o male, c’è un confronto con una comunità — con tribù diverse che si aggregano o disaggregano su alcuni spettacoli, si muovono fra i teatri, sono molto ricettive sulle novità. Tutto questo è possibile perché Milano e i suoi pubblici hanno un legame. E questo purtroppo non ac-
cade in tanti altri luoghi. Noi abbiamo un pubblico che ci «spinge» verso la drammaturgia contemporanea. Anche Lisa Ferlazzo Natoli ha sperimentato questa vivacità quando ha portato all’Elfo il Lear di Edward Bond, una rivisitazione complessa dell’opera shakespeariana trasformata in una attualissima riflessione sulla violenza politica: l’hanno visto 4.500 spettatori. Un’educazione alla visione costruita con anni di lavoro. In due giorni abbiamo fatto tutto il pubblico di Roma. Roma è un problema — un problema che riguarda tutti.
FRANCO CORDELLI — Elio, a Roma ci sono due teatri: Eliseo, privato; Argentina, teatro stabile, pubblico. Basta. Cioè: una città che accoglie milioni di abitanti e turisti ha due teatri... ELIO DE CAPITANI — La situazione di Roma è un pro
blema nazionale...
FRANCO CORDELLI — Vogliamo parlare di Bari? Che cosa c’è a Bari? Forse qualcosa a Palermo, a Napoli… ELIO DE CAPITANI — A Napoli c’è una realtà che si sta muovendo su più piani.
FRANCO CORDELLI — Perché è una città con una grande tradizione…
ELIO DE CAPITANI — Il problema è come mantenerla viva, questa tradizione. Poi c’è il Napoli Teatro Festival, una realtà indiscutibile, che in origine avrebbe dovuto esprimere un po’ tutta Italia e invece si è fermato a una rappresentazione «locale». Rimane che il nostro è un teatro vitale, non è più il teatro «ordinato» che volevi tu, Franco, con otto titoli per stagione anziché i cinquantasei di oggi. Ma quello che tu interpreti come «caos» altro non è che la rappresentazione di questa vivacità. Assomigliamo più a Buenos Aires che a Berlino. Noi interpretiamo la «ricchezza» — il teatro, le compagnie, il caos — come «confusione» ma a Buenos Aires ci sono 400 teatri e il teatro si fa dappertutto. In questa fase di fermento, di creatività diffusa, il nostro maggior successo è creare un pubblico altrettanto diffuso e attento, rapido nell’aggregarsi per allargare l’area del consenso alle novità. Per esempio è successo con Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti, Carrozzeria Orfeo; con Eco di Fondo di Giacomo Ferraù e Giulia Viana; con le compagnie di Musella e Mazzarelli, di Cinzia Spanò e Rosario Tedesco, con gli esperimenti in co-produzione europea di Belerhaaus o di Baby Walk. Questa è la direzione in cui il teatro si muove: stiamo dando vita a un movimento eterogeneo ma vivace, un’esperienza collettiva radicata in una pratica di scambi e incroci in cui artisti, attori, registi, staff migrano con facilità e si ibridano. Un fenomeno tipicamente settentrionale, milanese ma non solo…
FRANCO CORDELLI — In provincia il problema è più complicato. Penso a Babilonia Teatri, la compagnia ve-
neta di Enrico Castellani e Valeria Raimondi; oppure a Fanny & Alexander che Chiara Lagani e Luigi De Angelis hanno fondato a Ravenna nel 1992…
ENRICO CASTELLANI — La provincia è proprio il mondo di cui ci occupiamo: in questi anni abbiamo indagato diverse angolazioni della sua vita, cristallizzandola come microcosmo di un dolore universale affrontato toccando i nervi scoperti del nostro tempo.
CHIARA LAGANI — Fare teatro è sempre stato amare e praticare la letteratura, la musica, le arti visive. Noi di Fanny & Alexander lo abbiamo fatto ripensando Amleto, dando voce a un’Amica geniale, traducendo i quattordici libri di Oz, dirigendo o componendo opere musicali.
ANTONIO LATELLA — A questo punto un discorso interessante, rispetto a quello che stiamo dicendo, riguarda la creazione dei teatri stabili nazionali. Penso di poterlo dire a ragion veduta in qualità di regista e direttore di una compagnia, la stabilemobile, che non riceve fondi ministeriali e che ha deciso di prodursi — lo facciamo da dieci anni — da sola. Stabilemobile è nata dalla volontà di trovare una sintesi tra stabilità produttiva in ambito teatrale e mobilità artistica e geografica. Ora, gli Stabili nazionali avrebbero dovuto fare la differenza, anche creando nuovo pubblico. Ma creare nuovo pubblico vuol dire avere il coraggio di perdere pubblico. C’è anche un’altra questione, e riguarda la drammaturgia contemporanea, cioè giovani registi su cui il teatro ha il dovere di rischiare, ma che vengono lasciati a casa dopo il primo errore. Non facciamo testi contemporanei perché abbiamo paura che le sale si svuotino. Ma tutto questo non è vero. Sapete di chi è la responsabilità? Del direttore artistico e della sua (in)capacità di accompagnare il pubblico anche attraverso nuovi linguaggi. Direzione artistica significa tracciare una drammaturgia della stagione; un pensiero del teatro; una scelta dei registi, degli attori, dei testi; significa sostegno ai giovani emergenti. Ecco, le stagioni artistiche che negli altri Paesi vengono proposte dai teatri stabili da noi le realizzano i festival, che hanno imparato a essere «sanamente» competitivi. Nel nostro Paese, a differenza del resto d’Europa, gli Stabili nazionali invece di diventare competitivi (di dire: qui faccio un nuovo testo e il pubblico deve venirmi a vedere nella mia città) hanno innestato il solito loop: io faccio lo spettacolo, cerco la co-produzione, te lo vendo e ce lo giriamo tra sei-sette teatri. Questo non permetterà mai la nascita di giovani registi, di nuove drammaturgie. Dire: abbiamo più abbonati del Milan è uno slogan pericolosissimo, perché non ha nulla a che fare con il valore artistico del teatro. Ed è questa l’assenza che oggi vedo qui come regista che vive all’estero, in Germania, a Berlino. E non perché sono figo, ma perché semplicemente per lavorare ho dovuto espatriare. Al-
l’estero le «case» che scelgono giovani registi li sostengono anche nell’errore, perché li scelgono per mettere alla prova il loro pensiero artistico. Ho ascoltato qui molti «elenchi» di quello che manca al teatro italiano. Ecco, oggi manca soprattutto il pensiero della direzione artistica. Mentre, ne sono sicuro, c’è un pubblico pronto, anzi che cerca un nuovo linguaggio.
FRANCO CORDELLI — Ho sentito qui molti di voi parlare di nuova drammaturgia, di nuovi drammaturghi. Ma le biblioteche della drammaturgia sono sterminate, la drammaturgia esiste da 2500 anni. Eppure che cosa vediamo noi dell’antica drammaturgia? Non ho mai visto un Lope de Vega. Non ho mai visto un Cervantes, eppure Cervantes ha scritto sei-sette commedie importanti. Il suo Assedio di Numanzia è nuova drammaturgia per me, perché io non l’ho mai visto. Non è solo chi scrive oggi un nuovo testo. Se uno di voi va dal direttore artistico di un teatro nazionale, o privato, e dice «salve, vorrei fare L’assedio di Numanzia di Cervantes», che cosa si sentirà rispondere?
ELIO DE CAPITANI — Si sentirà chiedere: quanti attori ha? FRANCO CORDELLI — Giusto, gli chiede quanti attori ha. Ti fanno fare Jon Fosse, il drammaturgo norvegese più rappresentato dopo Ibsen, perché ha due attori.
ANTONIO LATELLA — La questione degli attori è un altro grande problema. Abbiamo aperto scuole per fare che cosa? Se apriamo scuole significa che c’è offerta di lavoro. Ma non c’è offerta di lavoro. I nostri attori, a meno che non siano ricchi di famiglia, devono avere un altro lavoro, fare i camerieri, se vogliono sopravvivere. Non possono solo recitare. In Germania, a fare ricerca sono i teatri istituzionali, non quelli del circuito off. Perché se non si fa nelle istituzioni, la ricerca muore. O finisce che si fa sempre davanti ai soliti dieci-quindici spettatori. È consolatorio, ma inutile. Per contribuire alla crescita del linguaggio è necessario che negli Stabili si faccia ricerca.
ENRICO FRATTAROLI — Il problema è anche la distribuzione. Perché si può produrre un lavoro anche da soli, e si può affittare uno spazio dove metterlo in scena. Occuparsi della promozione. Ma come è possibile distribuirlo senza un supporto adeguato?
CHIARA LAGANI — La distribuzione è il problema. Fanny & Alexander e Babilonia sono l’espressione delle scelte possibili di una compagnia indipendente: essere finanziati (per quanto ci riguarda stiamo parlando di 78 mila euro all’anno!) o non esserlo (come Babilonia, che per le produzioni si appoggia a uno Stabile che però riceve dei fondi). Nel giro di vent’anni è cambiato tutto. Quando siamo nati come compagnia c’era ancora il mito del «nomadismo», il teatro girava, c’era l’Ente Teatrale Italiano che sosteneva la mobilità. Quel sistema garantiva la mia attività e quella della mia compagnia, quattro o cinque persone che potevano vivere — modestamente — del proprio lavoro. Oggi, questo mostruoso decreto favorisce una stanzialità totale. Che cosa succede adesso? Un tempo era possibile produrre spettacoli, e quel fenomeno di iper-produzione a cui ti riferisci tu, Franco, è stato una necessità che per qualcuno si è trasformata in virtù. Mi è capitato di produrre anche tre o quattro lavori in un anno — io lavoro per cicli, per saghe, praticamente uno spettacolo diviso in tre o quattro puntate — ma questa era l’unica alternativa percorribile per non dire: smetto. Oggi produrre è diventata un’impresa abnorme. Essere finanziati vuol dire avere quel minimo di «garanzia» che ti permette di essere dentro un binario di distribuzione. L’altra scelta è quella di appoggiarsi a un teatro che già esiste, farsi scritturare. Mettiamoci però nei panni di una compagnia come la nostra, che nasce 25 anni fa con l’ambizione di essere un nucleo artistico e di difendere un’identità che è anche un’identità di scrittura e poi vedersi costretta a scelte come quelle dei Babilonia: scelte che cambiano un po’ la conformazione non poetica, ma politica, della tua compagine. Per ora noi resistiamo. Ma non sappiamo dove ci porterà questo tritacarne.
ENRICO CASTELLANI — Per me la questione — al di là di quello che sostengono Elio, e cioè che anche l’operaio va a teatro, e Antonio, e cioè che anche il figlio dell’operaio fa teatro — è che gli spettatori sono sempre gli stessi e si aspettano di vedere sempre le stesse cose. Manca una cultura teatrale. Si va a teatro o perché c’è un nome di richiamo — hai ragione tu, Jacopo — o perché si identifica quel luogo come un luogo da frequentare: a Milano accade perché ad esempio l’Elfo ha costruito una storia e un’identità. Si va a teatro per andare all’Elfo e non per andare a vedere quello che l’Elfo propone. In provincia, dove nessuno giustamente sa chi siamo noi di Babilonia, o chi sono Fanny & Alexander, e nemmeno magari chi è Antonio Latella, che oggi dirige la Biennale di Venezia, gli spettatori vanno a teatro perché si fidano della proposta di quel teatro. Certo, spesso sia tra gli organizzatori che tra i pubblici esistono circuiti chiusi che non comunicano, per cui quegli spostamenti di cui parlavi tu, Elio, esistono forse a Milano. Altrove certamente no. Se questa comunicazione virtuosa tra organizzatori e spettatori invece ci fosse, forse allora potrebbe davvero succedere qualcosa di entusiasmante. È questa la rete di cui parlavo prima: tra teatri, artisti e società civile. FRANCO CORDELLI — Enrico Frattaroli, proviamo a mettere a fuoco questo. E cioè che il modo in cui in Italia viene finanziato il teatro è il modo in cui esso viene considerato. Perché non volevi che il tuo lavoro venisse finanziato?
«Il teatro non ha coraggio: non investe sui giovani, non va a caccia dei nuovi talenti della regia o della drammaturgia. Il teatro non ha voce. I romanzieri trovano spazio. Gli attori del cinema trovano spazio. Noi no. Ma un modo per reagire c’è»
ENRICO FRATTAROLI — Perché non volevo sottostare alle direttive del ministero. Aver rinunciato, quando erano irrinunciabili, alle sovvenzioni ministeriali fin dal 1991 (otto anni dopo averle conseguite) ha determinato le modalità di esistenza, se non di immaginazione del mio teatro. Il mio teatro esiste — questo vale per il lavoro su Joyce, su De Sade e per l’ultimo, 4.48 Psychosis. Sinfonia per voce sola, di Sarah Kane (la drammaturga britannica morta suicida a 27 anni dopo aver scritto questo testo) — finché io lo faccio esistere, inventandomi di volta in volta i modi per produrlo, al di fuori delle regole, dei tempi e degli spazi a vario titolo istituzionali, esclusivamente alimentato dalla mia passione di utopie estetiche, le sole utopie in cui mi riconosca. Questo mio essere fuori dal teatro non mi ha impedito di presentare i miei lavori all’estero, ma mi ha escluso, nondimeno, dalla famiglia del teatro italiano.
FRANCO CORDELLI — Che vuol dire «escluso dalla famiglia»? Sei un reietto?
ENRICO FRATTAROLI — Non ne faccio una questione culturale, di appartenenza a una qualche stirpe maledetta. Non mi sento un sopravvissuto degli anni Settanta. Dico solo che non ho nulla da offrire se non il mio teatro. Non ho cioè nulla da scambiare con nessuno. Sappiamo bene quanto tutto dipenda dalla distribuzione —l’ho detto prima — e dalle possibilità di ciascuno di offrire qualcosa in cambio di qualcos’altro.
FRANCO CORDELLI — Alla fine degli anni Ottanta polemizzai aspramente con Franco Carraro, il ministro del governo Craxi che allora si occupava di spettacolo e turismo. Lo ricorda lui stesso nel suo libro di memorie. Lo attaccai perché sosteneva che «il teatro deve diventare un’azienda». Ora dico: consideriamolo un museo. Il teatro deve essere finanziato e non deve diventare un’azienda, il museo è un’altra cosa.
ENRICO FRATTAROLI — Carraro in quell’anno, il 1990, l’anno dei Mondiali di calcio in Italia, tagliò 200 compagnie per risparmiare: un taglio che venne salutato come un’azione esemplare. Che meraviglia: abbiamo buttato sul lastrico 200 compagnie. Fu quasi un punto d’onore quella scelta, non si dovevano dare le sovvenzioni a pioggia, si diceva.
FRANCO CORDELLI — Sbagliato. Io penso che il teatro debba essere finanziato.
MARCO PAOLINI — Signori, dobbiamo tornare all’oggetto di questa conversazione: dove va il teatro italiano? Sgomberiamo questa nostalgia dal tavolo: nessuna adolescenza può durare più di quindici anni. Lo stato di salute del teatro ha necessariamente a che fare con le stagioni politiche. Insieme alla leadership dell’Europa e al sistema di welfare, scolastico e culturale, nel quale siamo cresciuti — che rischia di essere l’ultima, lussuosa eccezione di resilienza del Novecento in un mondo che vive di altre cose — sta morendo anche il teatro. Le ultime cattedrali di tutto questo siamo noi, un sistema che consente di avere teatri pubblici sottoutilizzati e costosi. Aggiungo: c’è un arcipelago di teatri provinciali nei quali non si fanno proposte; decine, centinaia di comuni italiani si sono dotati di luoghi che vengono aperti sì e no dieci giorni all’anno. Il mantenimento di tutto questo appare — aveva ragione Alessandro Baricco qualche anno fa — meno urgente che non il mantenimento del sistema scolastico. O della sanità pubblica. Di questo passo, il problema dei finanziamenti potrebbe non porsi più nel giro di alcuni anni. Il rischio è che non ci sia più niente da finanziare?
MARCO PAOLINI — Non possiamo non tenere conto che l’economia è da tempo in crisi. Una delle cose che noto è questa, anzi è un’osservazione del mio amico Gabriele Vacis: c’è più gente che fa teatro di quella che va a teatro. La verità è: possiamo uscire da questa conversazione solo se abbandoniamo il punto di vista degli artisti. Il mondo si è capovolto. Pensiamo a internet. Quando la rete si è diffusa nelle nostre vite, i soggetti che gestivano le produzioni culturali, cioè le televisioni, hanno detto: ma chi se ne frega se internet apre decine di migliaia di canali, io faccio fatica a riempire di contenuti i miei palinsesti. Nessuno immaginava che i contenuti della rete sarebbero stati prodotti dagli utenti e non dagli editori. Cioè: gli spettatori si sono trasformati in produttori. Questo fenomeno che ha riempito la rete di prodotti artigianali, amatoriali, filodrammatici, copie uniche, segna la fine della produzione industriale. Il prodotto artigianale singolo, collocato sulla rete, raggiunge numeri appaganti per la pubblicità e genera un nuovo tipo di consumo. Quel mondo, YouTube in particolare, ha cambiato per sempre l’idea stessa del rapporto tra artista e spettatore: spesso le due figure coincidono. Che cosa ha a che fare tutto questo con il teatro?
MARCO PAOLINI — Antonio Latella lamenta che gli attori per sopravvivere devono fare i camerieri. Io, in realtà, sono un sostenitore dell’attore-cameriere. L’attore ibrido è il futuro. Non possiamo fare a meno dei dilettanti, e guardate che qua non uso la categoria dei dilettanti con la puzza sotto il naso. Poi, e qui chiudo, non sono d’accordo con niente di quello che dici tu, Franco. Sono invece assolutamente d’accordo sullo spreco nella creazione perché penso che il teatro sia arte o poesia solo occasionalmente. È una vecchia lezione di Dario Fo, l’unica che ho accettato da lui perché me l’ha tirata in faccia: il teatro non si fa per la posterità. L’avevo provocato: fai testi brutti, gli avevo detto; lui mi aveva risposto: il teatro non si fa per i posteri. Resto dell’idea che i suoi testi fossero brutti.
FRANCO CORDELLI — Ok, il teatro si fa per il presente. Il problema è che gli spettacoli che vedo oggi non mi danno nulla. MARCO PAOLINI — Occhio perché in tutto questo c’è una presunzione di punto di vista, saggia e inevitabile se vuoi continuare a fare il critico. Ma quello che piace a te non può essere il discrimine di questa discussione.
FRANCO CORDELLI — Non a me personalmente, non sto parlando di questo.
ENRICO FRATTAROLI — Marco, è facile parlare oggi della rivoluzione di internet, ma era impossibile accorgersene e intuirne gli effetti mentre accadeva.
MARCO PAOLINI — Ripeto: i dirigenti dei network televisivi non sono stati in grado di leggere quello che stava succedendo perché erano troppo certi dei loro mezzi. ENRICO FRATTAROLI — Forse non era possibile pre
vederlo… MARCO PAOLINI — Niente si può prevedere, ma accorgersene dopo è sempre utile. Allora serve, dal mio punto di vista, provare a immaginare. Anche sbagliando, ma serve un po’ di immaginazione. Provare a immaginare che i luoghi — e in questo il teatro non fa eccezione — incrocino non soltanto chi lavora in questo mestiere ma altri soggetti e altre identità.
ANTONIO LATELLA — Scusate, tornerei alla parola adolescenza usata da Marco. Noi tutti continuiamo a cercare l’adolescenza, ma nessuno ha aiutato gli adolescenti a diventare adulti.
LISA FERLAZZO NATOLI — Sono d’accordo, e credo che la maturità si conquisti se viene dato tempo e se ci si può permettere di sbagliare uno spettacolo. È proprio quell’errore, vissuto come fanno le scienze sperimentali — cioè come parte fruttuosa di un processo — che porterà con tutta probabilità a centrare il passo successivo.
ANTONIO LATELLA — Franco, tu hai ricordato il concetto di teatro come azienda. Il problema è proprio questo: l’incapacità di far diventare la cultura azienda. Gli attori non vengono riconosciuti come lavoratori. Il teatro è un mestiere, non un hobby. Far diventare il teatro «azienda», e quindi «produzione» di cultura e anche di soldi, è un passaggio che non è mai stato fatto.
MARCO PAOLINI — Vorrei dire ancora una cosa su internet. L’autorevolezza di Wikipedia si fonda su un sistema peer to peer, per cui non esiste un professore e basta: l’authority delle persone che danno vita all’enciclopedia digitale è confermata da tutti gli altri, cioè gli utenti, cioè — per fare l’esempio del teatro — gli spettatori. Il prestigio di Wikipedia in questo momento è maggiore di quello dell’Encyclopædia Britannica e addirittura fa legislazione negli Stati Uniti, ovvero comincia a essere ritenuta base autorevole per le motivazioni di sentenza. E Wikipedia c’è da non più di 8 mila giorni. Dunque quello che dico è: a questo tavolo mancano gli spettatori. E non potrebbero esserci, perché nel modo in cui li concepiamo, nel modo in cui ci auto-rappresentiamo, vengono dopo. Sto dicendo che serve un patto, servono strategie per immaginare il teatro come rete e non come singole eccellenze in competizione tra loro; sto dicendo che l’inevitabile ragionamento di quegli anni del management che intendeva i teatri come aziende rischia, ahimè, di essere superato dal fatto che gran parte delle aziende che non hanno un appeal sufficiente, anche quelle culturali, tendono a sparire. Sto dicendo che dobbiamo rendere il teatro appetibile anche ai cinesi, come il calcio. Qualsiasi cosa diciamo negli spettacoli a teatro finisce mai nel dibattito pubblico? Perché le cose che dice uno scrittore vengono citate dalla politica? L’autoghettizzazione deriva anche da questo: da un’insufficiente forza di insieme degli artisti. Nella narrativa non è così. E nemmeno nel cinema è così. E scusate, oggi non esiste sistema più inconsistente del cinema in quanto a spettatori nelle sale. Il cinema sta molto peggio di noi. Eppure i film parlano, l’opera teatrale assai meno.
FRANCO CORDELLI — Come se ne viene fuori? MARCO PAOLINI — Bisogna provare a immaginare un sistema in cui i teatri siano una rete fisica. E provare a immaginare, per esempio, un sistema che incroci i tea-
«In realtà a questo tavolo mancano gli spettatori. Dobbiamo creare una rete con loro. Rendere eccitante l’idea di andare a teatro, farlo diventare indispensabile alla vita di ciascuno, come la scuola e la sanità. Ma per fare questo dobbiamo aprire gli edifici al mattino. O di notte. Ospitare biblioteche e anche discoteche. Farne dei luoghi vivi, open, delle case calde»
tri con gli spettatori-recensori. Questo non significa sbarazzarsi dei critici, ma fare emergere una vivacità di opinioni di cui noi dobbiamo tenere conto. Questo è quello che immagino come la rete di un teatro open source. ENRICO CASTELLANI — Ma è proprio questo che manca al teatro italiano, sopraffatto dall’individualismo. Noi siamo nati in un momento in cui il welfare del teatro stava già morendo, e questo non ha assolutamente portato le compagnie a fare rete, anzi ognuno se ne è andato per conto proprio. Marco, mi sembra un’utopia. Ma forse è l’unica utopia possibile.
MARCO PAOLINI — Stai tranquillo, Enrico, se non reagiamo interverrà qualcun altro: i vuoti non resistono a lungo. ELIO DE CAPITANI — A Milano la chiusura, il 3 ottobre scorso, del Teatro Ringhiera ha innescato una reazione di solidarietà di tutti i teatri.
ENRICO CASTELLANI — Sì, ma non si può parlare del teatro oggi in Italia guardando la situazione di Milano, la realtà è molto più complicata.
ANTONIO LATELLA — La scorsa estate, a Napoli, ha chiuso per restauri il Teatro Mercadante: non si è saputo nulla di preciso. Se nei teatri parigini succede qualcosa, scioperano per quattro mesi; se succede qualcosa in Italia, al massimo si sciopera il lunedì, quando i teatri sono chiusi. Questa è la dimostrazione che abbiamo fallito, che non siamo riconosciuti né come azienda né come cultura.
ENRICO CASTELLANI — Manca un tessuto che riconosca il teatro come interessante, utile alle nostre vite.
MARCO PAOLINI — Quando parlo della necessità di una rete con gli spettatori, intendo dire che noi oggi non possiamo fare riferimento solo a direttori artistici illuminati. Chiamando in causa i direttori artistici, tu, Antonio, stai evocando la funzione del mediatore culturale, colui che rende possibile il transito di un nudo, o di un simbolo, o di un linguaggio non immediato nell’immaginario di una persona senza che questo venga rigettato prima di essere giudicato. Ma noi oggi non possiamo più progettare come progettavamo o avremmo progettato nel momento in cui in questo Paese esisteva la politica culturale dello SPRECO — sfondare i bilanci per fare esperimenti. Allora, io dico che l’asticella si è alzata ma che non è così impossibile affrontare la sfida. Semplicemente non tocca soltanto a noi. Se non ecciti gli spettatori rendendoli partecipi di qualcosa di più grande che si chiama teatro, non hai vita lunga. Noi dobbiamo rendere sexy il teatro. Non solo: dovremmo provare a immaginare di aprire i teatri anche la mattina. O la notte.
ENRICO CASTELLANI — Farne dei luoghi vivi! MARCO PAOLINI — Si tratta di una nuova relazione fondata sulla funzione di «custodia» del bene comune, del bene pubblico, degli edifici. E di fiducia.
ELIO DE CAPITANI — Molti teatri a Milano restano già aperti dalla mattina alla notte. È bellissimo, crea comunità, altro che social in rete. Ma c’è il gigantesco ostacolo delle norme di sicurezza. Se dovessero applicare all’aeroporto di Malpensa le norme di sicurezza applicate al teatro, dovrebbero assumere 120 mila dipendenti per regolare il flusso dei passeggeri.
ENRICO CASTELLANI — Ma dove sono, nelle città, questi posti che possiamo riconoscere come luoghi di appartenenza, da frequentare, dove discutere?
ELIO DE CAPITANI — Al Binario Sette di Monza hanno dato in gestione lo spazio a un teatrante: c’è da fare a botte per avere le sale. È un privato che si è assunto la responsabilità. È un luogo aperto alla città e la città se ne è appropriata. MARCO PAOLINI — Prima abbiamo costruito le chiese; poi abbiamo fatto i teatri. Infine le stazioni ferroviarie. L’Italia è nata così. L’edificio principale della città è stato prima la chiesa, dopo il teatro e poi la stazione ferroviaria, che è diventata più importante del teatro. Per non parlare dei centri commerciali MARCO PAOLINI — Delle chiese non possiamo occuparci, tanto meno del loro uso alternativo (certo, se fossero tolleranti e disponibili verso altri culti sarebbe una cosa interessante). È quello che dobbiamo fare anche noi: il secondo edificio più importante della città oggi non lo è più, nemmeno lontanamente. Dobbiamo reinventarlo con nuovi contenuti e non possiamo farlo solo per pochi giorni all’anno. Questo restituirà centralità a quell’edificio. Ecco il mio pensiero: non accontentarsi che il teatro sia solo il luogo estremo dell’arte teatrale. Creare reti, reti fisiche tra le persone, significa anche toglierle dalla solitudine. Se non vai mai a teatro, diventa difficile che ti accorgi della sua esistenza.
ANTONIO LATELLA — Mi sembra che siano emerse due cose interessanti. Primo: non stiamo parlando di teatro per il popolo, ma che il popolo si riprenda il teatro; secondo: la rete di cui tu, Marco, parli è una cosa straordinaria, un luogo in cui gli spettatori raccontano lo spettacolo. Penso che potrebbe funzionare...
LISA FERLAZZO NATOLI — Forse questa rete tra gli spettatori potrebbe anche aiutarci a superare le difficoltà dei teatri nel comunicare le loro proposte culturali.
ELIO DE CAPITANI — Molti teatri in Italia hanno ottimi cartelloni ma non sanno promuovere e valorizzare quello che gli artisti di talento creano.
LISA FERLAZZO NATOLI — Noi ripetiamo sempre che i teatri a Roma sono deserti. Ma come spieghiamo al pubblico romano che cosa va a vedere? È un problema di comunicazione e anche di promozione, perciò succede che ci sia più gente all’Angelo Mai che al Teatro di Roma. Sono d’accordo con quello che dicevi tu, Antonio: non è
vero che il pubblico non vuole nuovi linguaggi, bisogna dargli quanto meno la possibilità di conoscerli, questi nuovi linguaggi. Quando hai messo in scena Natale in
casa Cupiello io ero in sala, tra alcune abbonate ottantenni, e pensavo: adesso queste smontano il teatro e se ne vanno. Invece no, sono arrivate alla fine dello spettacolo e le ho viste semplicemente felici.
CHIARA LAGANI — La questione del pubblico è davvero molto complessa. Sono d’accordo con Lisa. Mi è capitato di portare in scena nello stesso luogo, in periodi differenti, due miei spettacoli e di avere grandissime difficoltà o una grandissima affluenza. Sono fenomeni che fai fatica a spiegare. Parlo anche dell’Angelo Mai, una realtà che amiamo e sosteniamo sin dalle origini: a volte il pubblico è costretto a restare fuori, altre volte non entra neanche se lo spingi.
LISA FERLAZZO NATOLI — Ha ragione Franco: due o tre teatri per una città come Roma sono pochi. La sensazione che ho quando vado in scena è: o la va o la spacca.
ELIO DE CAPITANI — Noi abbiamo fatto una prova: richiamare degli spettacoli per grande insuccesso. Uno in particolare, I conigli non hanno le ali, scritto e diretto da Paolo Civati, era andato malissimo e non riuscivamo a capire perché. L’anno dopo andò benissimo.
ANTONIO LATELLA — Vorrei aggiungere una cosa sull’Angelo Mai. La verità è che lì il pubblico si sente a
casa, si riconosce in quel luogo. Quindi, se la domanda è cosa serve per far ripartire il teatro italiano, la risposta potrebbe essere: fare sentire le persone a casa. C’è molta gente che in teatro non entra perché ha paura di non essere all’altezza. ELIO DE CAPITANI — Questo è verissimo. LISA FERLAZZO NATOLI — Certo. ANTONIO LATELLA — Se poi in teatro tu fai il rave, fai la discoteca o altre cose e fai capire che quel luogo si può abitare in modo popolare e non elitario scatta un meccanismo di attrazione.
JACOPO GASSMANN — Molti teatri sono spesso vuoti e poco frequentati, sia la sera che durante il giorno. Ci sono bellissime eccezioni (penso ad alcuni teatri del Nord), ma è troppo poco. Un teatro deve essere vivo e pulsante tutto il giorno, a partire da bar e ristoranti, dalle biblioteche dove leggere e studiare, dagli stand dove magari acquistare nuovi testi teatrali. Ecco, in Italia mancano quasi completamente i dipartimenti di drammaturgia. Bisognerebbe che alcuni teatri con i mezzi adeguati creassero dei poli di scrittura teatrale adiacenti alle sale, dove poter formare drammaturghi e aiutarli a crescere. Permettere loro di sbagliare per crescere: vale per gli autori quello che tu, Antonio, dicevi per i registi. Questo può avvenire attraverso laboratori e percorsi guidati, con la garanzia di potere un giorno arrivare a produzioni finanziate. Perché per drammaturghi e registi giovani mancano spesso degli orizzonti di possibilità.
MARCO PAOLINI — La questione non è solo del luogo e della legittimità di entrarci. Ma anche di riconoscere cosa ci passa dentro. Invece di delegare ai direttori artistici la responsabilità di quel rischio da teatro pubblico che in Germania si prendono e qui no, non abbiamo mai citato la questione dei cartelloni, sempre uguali, senza mai esplorare il repertorio della classicità «inedita» né sperimentare la drammaturgia contemporanea. Non possiamo dare per scontato che lo spettatore conosca gli scenari della drammaturgia contemporanea e nemmeno fargli automaticamente venire voglia di esplorare l’inedito del passato. Non basta proporli, certi testi, perché sarebbe solo una provocazione. Per rendere «familiare» il teatro, è necessaria quella rete di cui stiamo parlando. Questo si chiama progetto culturale. I francesi lo fanno e lo ammantano di grandeur; noi non lo facciamo perché siamo individualisti. Se riuscissimo a lusingarci assegnandoci dei ruoli che ci piacciono ecco che, ognuno di noi, oltre a coltivare il suo, potrebbe coltivare un orto comune. Altrimenti il rischio è di essere percepiti ancora più piccoli di quello che già siamo.
ELIO DE CAPITANI — Vero. Il teatro è oggi un fenomeno molto più allargato rispetto al passato. E più vivo.
ENRICO CASTELLANI — In realtà, spesso, soprattutto in provincia, il teatro non diventa mai luogo di aggregazione. La necessità di far continuare a esistere questi luoghi non è solo compito del direttore artistico, ma della società civile. Mi chiedo: quanto essa ha davvero bisogno, o voglia, di animare, di vivere questi luoghi? Noi la nostra parte cerchiamo di farla, presto prenderemo in gestione La Piccionaia, che è una compagnia di Vicenza — al momento si occupa soprattutto di teatro per ragazzi — che crediamo abbia le potenzialità per fare altro. Purtroppo, oggi il sistema è pensato soprattutto per rispondere a dei numeri: in nome di quei numeri non si rischia, non si investe, non si progetta. Ma cosa c’entrano i numeri con un progetto culturale?
ELIO DE CAPITANI — Bisogna trovare il modo di abbattere questo sistema di numeri e algoritmi. Hanno cercato di rendere organici i finanziamenti. Soltanto che, invece di renderli organici, hanno provato addirittura a renderli scientifici, con una struttura di parametri numerici in cui arte e qualità hanno un ruolo marginale. Ma questo non ha senso: un blocco di marmo scolpito da me e uno scolpito da Michelangelo hanno valore diverso. Le norme cosa fanno? Chiedono, scientificamente, il volume del marmo, il peso del marmo, il numero di scalpellate date. Non chi lo ha scolpito. Noi qui oggi abbiamo parlato di comunità di artisti, attori, direttori, pubblico e alte maestranze sceniche. È questo che rischiamo di perdere, è questo che non vogliamo perdere.