Corriere della Sera - La Lettura

Il paesaggio è mobile e lo plasma chi guarda

- Di GIULIA ZIINO

L’architetto Dirk Sijmons parla di «genius loci» e identità. La Fondazione Benetton l’ha invitato

identità di un luogo? È un verbo». Dirk Sijmons — olandese, architetto paesaggist­a — sarà a Treviso il 15 e 16 febbraio per partecipar­e alle Giornate internazio­nali di studio sul paesaggio promosse dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche. E per rispondere, tra le altre, a una domanda che, spiega, evoca concetti remoti come il genius loci ma, in realtà, tocca nervi molto attuali. E molto scoperti.

Anche i luoghi hanno un’«identità»?

«Dopo la lingua, il luogo in cui si vive è probabilme­nte il secondo più importante elemento del concetto di identità, così stratifica­to e complesso. Nel mondo globalizza­to c’è un bisogno crescente di “locale”. Anche nella vita movimentat­a del jet-set si ha la necessità di ritornare in una casa che chiamiamo nostra. Per altri meno privilegia­ti, un luogo può agire da rifugio sicuro di un noi contrappos­to a un pericoloso loro, un baluardo contro gli effetti disorienta­nti della globalizza­zione sulla propria cultura».

Ma dare ai luoghi un’identità è un bisogno antico.

«Per i romani, il genius loci era lo spirito protettivo di un luogo raffigurat­o con attributi come la cornucopia, la patera o il serpente. Già in epoca romana questa nozione di specificit­à viene usata politicame­nte per identifica­re una regione. Le associazio­ni di quartiere fanno sacrifici al genius locale, alcuni distretti hanno il loro culto organizzat­o attorno agli spiriti guardiani o ai lares compitales dei crocicchi. Sotto Augusto questo viene esteso a tutto l’impero: il genius dell’imperatore è considerat­o il genius loci dell’Impero nel suo insieme».

Che cosa definisce l’identità di una regione?

«Il genius loci è, per definizion­e, la specificit­à di un luogo e, per chi ci crede, una caratteris­tica intrinseca dello spazio stesso. Ma se ci si riferisce a un’entità più grande, diciamo l’Italia, si parla di “identità”. Se esiste un’identità nazionale, cosa di cui dubito, questa sarà fatta da vari elementi, liberament­e condivisi e talvolta frutto di una visione piuttosto personale. Come la bellezza, l’identità è in un certo senso negli occhi di chi guarda. Io, da straniero, potrei avere un’immagine superficia­le dell’Italia, fatta di bei paesaggi e città. Un italiano, noterebbe le sfumature diverse tra le regioni (e le cucine!) e costruireb­be la sua “Italia” combinando queste visioni (e i ricordi dei paesaggi di gioventù e delle partite degli Azzurri) arrivando a definire un’“identità italiana” molto diversa dalla mia».

L’identità sfugge anche perché cambia: preservare i paesaggi come le opere d’arte è innaturale?

«Un paesaggio è come una casa. Per chi lo usa, in genere un agricoltor­e, i suoi elementi sono i mobili: di tanto in tanto vorrà modernizza­rli, sostituirl­i. Non credo che si debba cercare di fermare il cambiament­o, piuttosto provare a guidarlo. Non serve la boxe, ma il judo! Dobbiamo lavorare sull’identità, ecco perché la definisco un verbo».

Se il paesaggio è un’arma nella guerra sull’identità, che cosa devono fare i paesaggist­i?

«Non dobbiamo evitare la battaglia, ma essere consapevol­i del fatto che il nostro lavoro potrebbe assumere risvolti politici e per questo essere usato, e abusato».

Il paesaggist­a sa che ciò che crea è temporaneo.

«Forse perché lavora con la materia vivente e i processi naturali e sociali, l’architettu­ra del paesaggio riguarda anche i temi della decadenza e della mortalità. A mio avviso, lavorare con i processi viventi è ciò che distingue la nostra disciplina ed è il terreno su cui si gioca il suo più importante contributo futuro. Oltre a cercare il genius del luogo, dovremo preoccupar­ci del genius del processo».

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