Corriere della Sera - La Lettura
Maledetta autobiografia liberaci dall’io (se puoi)
Andrea Inglese raccoglie e seleziona i propri testi in versi e in prosa, mostrando come sia possibile provare a sfuggire all’assedio del lirismo. E rivelando i debiti verso i maestri, Sereni soprattutto
Introducendo giusto vent’anni fa la prima silloge poetica di Andrea Inglese, Prove d’inconsistenza, Giancarlo Majorino aveva parlato di un a uto re s i ngol a r mente fo r ni to di quella «criticità permanente» che della poesia dovrebbe costituire il «terreno specifico». Da allora Inglese ha scritto parecchio, non soltanto in poesia. Strada facendo ha acquistato in esperienza esistenziale, ha messo a punto strumenti teorici sempre più consapevoli, ha attraversato ambiti espressivi e tematici anche molto diversi. Tuttavia quella prima definizione è rimasta insuperata. Si può dire anzi che sia stata una simile vocazione critica, rivolta anzitutto contro sé stesso, a determinare più d’ogni altro fattore il suo percorso. Insoddisfazione, impazienza, il timore di compiacersi dei risultati raggiunti o di venire inchiodato a una fisionomia stilistica troppo determinata: essere fedele a quella sua prerogativa fondamentale, per Inglese ha significato sconfessarsi o tradirsi continuamente.
È possibile farsene un’idea attraverso il volume Poesie e prose 1998-2016. Un’autoantologia, che offre una specie d’immagine sintetica della molto versatile officina di questo scrittore (è uscito nella collana «Autoriale», diretta da Biagio Cepollaro per Dot.com Press). Come dal titolo la raccolta comprende una scelta delle poesie e delle prose, ascrivibili queste a una sorta di territorio non giurisdizionale che in genere sembra più orientato verso la prosa rispetto al canonico poème en prose, ma viceversa almeno un poco in difetto di qualità narrativa autonoma rispetto al racconto vero e proprio. È difficile dire se si tratti di un autore inteso a rimescolare i confini tra i generi o dotato invece di una particolare dimestichezza nell’attraversarli. Certo è che nel complesso la tensione tra possibilità espressive diverse, a cominciare da quella tra il verso e la prosa, costituisce un elemento fondamentale della sua strategia di significazione.
Si tratta del resto di un poeta che a ogni livello sembra possedere una doppia cittadinanza. È riconducibile a quella che in questi anni si è via via definita come «poesia di ricerca» (distanziamento dal genere lirico, dalla soggettività, dall’io autoriale, componente teorica molto agguerrita e aggiornata, priorità data al linguaggio e al-
la sua scomposizione, nonché al procedimento stesso della scrittura, ironia, straniamento, critica sociale e politica: l’eredità delle avanguardie più o meno lontane, insomma), eppure il suo lavoro sembra inconcepibile senza un legame, mediato e relativizzato quanto si vuole, con il grande alveo della tradizione del secondo Novecento. Non a caso Luca Lenzini ha richiamato per lui Sereni, Raboni, Fortini, Cattafi, lo stesso Majorino. Così, se si pensa che una decisiva componente sperimentale è intrinseca a qualsiasi poesia non superficialmente fondata, va dato merito a Inglese di aver inteso la ricerca, a differenza di tanti suoi compagni di strada (non tutti), non come fine ma come mezzo, cioè sempre e comunque come un «modo», così scrive in un testo di riflessione poetica posto in calce al volume, «di connettere scrittura e vita». Fra tradizione e innovazione, lirica e anti-lirica, le carte della nostra poesia sono molto più imbrogliate e contraddittorie di quanto in genere si pensi. E Inglese è forse il primo a saperlo.
Da questo punto di vista, c’è un distico che potrebbe essere preso come emblema della consapevole ambivalenza o equivocità del suo atteggiamento poetico: «Non posso non raccontare la mia storia./ Chiamo questo: calamità autobiografica». E il principale strumento di questo colpevole, disastroso quanto inevitabile autoriferimento, è lo svolgimento argomentativo e giudicante del discorso poetico. Una lunga campata sintattica costruita per continue riprese logiche e musicali, e coincidente tante volte con una strofa o con un’intera poesia, risulta infatti il suo tratto espressivo più riconoscibile e durevole. Non è improbabile che qui la lettura di Sereni abbia inciso più in profondità di ogni altra. Inglese ha sempre bisogno di sviluppare un discorso, ed è proprio quest’attitudine riflessiva che gli consente di agganciare la dimensione privata (percezioni, emozioni, pensiero) con un orizzonte più ampio, di rapportare gli spazi minimi di vita, il dialogo con gli oggetti di ogni giorno, con i grandi scenari cittadini. I meccanismi del possesso, dell’egoismo, dell’autodifesa, della dimenticanza, i costi della sopravvivenza, la violenza dei rapporti, i tic, le abitudini mentali, le impietose leggi della vita: questo è il suo campo. La sua disposizione critica — verso sé stesso, verso la società dell’ingiustizia e dell’indifferenza — muove da dentro, con estrema calma e precisione, con capziosità perfino, sviluppandosi in modo non precostituito attraverso la capacità dell’io poetico di estraniarsi da sé, di vedersi da fuori, di mettersi sul banco degli imputati, di provare a correggersi: «Finché esiste questo nutrimento,/ che io traggo da me, per lei, e che mi ritorna/ come il senso trasparente del vivere,/ io posso dire che la rivoluzione,/ nonostante le mie conclamate inadeguatezze,/ pare proprio essere cominciata».