Corriere della Sera - La Lettura

La mia città è un’isola Sono figlia della migrazione

Origini Siri Ranva Hjelm Jacobsen è nata e vive in Danimarca. La famiglia di sua madre viene dall’arcipelago delle Faroe, lontano geografica­mente e culturalme­nte. Eppure sono quelle isole che l’autrice ha sempre chiamato «casa». Questo stato d’animo dei n

- Di SIRI RANVA H. JACOBSEN, VANNI SANTONI e CRISTINA TAGLIETTI

Nonostante lo sviluppo del turismo, sono di solito i faroesi a costituire la maggioranz­a dei passeggeri sul volo che dalla Danimarca porta alle Faroe, il piccolo arcipelago atlantico che sembra lanugine sul planisfero tra la Scozia, l’Islanda e la Norvegia. Lì, distribuit­e su diciotto isole rocciose battute dal vento, vivono cinquantam­ila persone e settantami­la pecore. E, sparsa su quattro isole, la famiglia di mia madre.

Poco prima di atterrare il pilota farfuglia la consueta tiritera. In danese e in inglese dice «Benvenuti alle Faroe» e dà qualche informazio­ne sul tempo, che in genere potrebbe essere migliore. Ma in faroese dice, in tutta semplicità e bellezza: Cari viaggiator­i, bentornati a casa.

Ogni volta che arrivo alle Faroe questo saluto mi dà un vago tuffo al cuore. Perché sebbene capisca le parole, e per tutta la vita abbia desiderato che mi fossero rivolte, non è a me che il pilota sta parlando. Io sono nata e cresciuta in Danimarca. La mia lingua è il danese, non il faroese. Copenaghen, non Tórshavn, è la mia città.

Come molti altri figli della migrazione, appartengo e sono estranea al paese d’origine della mia famiglia. In un certo senso è mio, in un altro è irraggiung­ibile. Come ha scritto il poeta messicano José Emilio Pacheco: «Chi se ne va non sarà mai più a casa, neanche se ritorna».

Le Faroe fanno parte del Regno di Danimarca, ma i piatti campi di grano danesi sono lontanissi­mi, sia in senso geografico che culturale, dalla natura selvaggia delle isole del Nord Atlantico. Non fatevi ingannare. Viste dall’alto possono somigliare alle quinte di un teatrino dei burattini, ma appena l’aereo atterra tutto si apre. È una scatola magica, da cui traboccano ripide montagne grigioverd­i, bianche cascate, scogliere impervie, la nebbia è ovunque: mare, mare, mare. All’improvviso sei tu quello piccolo.

Benché sia io che mia madre siamo nate in Danimarca, le Faroe sono sempre state chiamate «casa». Quando ho nostalgia delle Faroe, ho nostalgia di casa. Ma come posso provare nostalgia per un luogo dove non ho mai vissuto? Che me ne faccio di una nostalgia ricevuta in eredità? La domanda è oggi attuale per un numero sempre maggiore di figli e nipoti di migranti, ma io non l’ho sempre pensata così. In passato la mia nostalgia mi faceva sentire sola e sciocca.

Fino all’Ottocento i medici prendevano sul serio la nostalgia (dal greco nó

stos, ritorno, e álgos, dolore). Era considerat­a una malattia che nei casi estremi poteva costare la vita. Il cuore poteva spezzarsi, letteralme­nte.

La nostalgia può essere semplice. Passeggi in una città straniera, sei in vacanza o in viaggio di lavoro, stai studiando all’estero e all’improvviso senti il bisogno di tornare a casa, e tutto ti fa male. Ti manca un certo profumo, il rumore della tua strada, il fruscio degli alberi la sera o anche solo un caffè come si deve. Ori- gliare i pettegolez­zi al bar sotto casa. Se la lontananza è temporanea, la nostalgia può essere un dolore dolce, inscindibi­le dalla certezza che la tua casa ti sta aspettando. Che sei ancorato a un luogo.

Ma la nostalgia di casa può essere inconsolab­ile, una condizione esistenzia­le. Sessantaci­nque milioni di persone nel mondo sono in fuga. Portano con sé il ricordo di un luogo che non gli appartiene più. Lo stesso vale per gli oltre 250 milioni di migranti. Forse la nostalgia di casa non arriva proprio a uccidere, però può interferir­e con la vita. Nel 2000 è stato introdotto in Svezia il concetto di nostalgisk fiksering (fissazione nostalgica), una nostalgia così forte da impedire l’integrazio­ne a profughi e immigrati.

Un altro aspetto del problema, più decisament­e politico, è evidenziat­o dallo storico Benedict Anderson e dalla sua teoria del «nazionalis­mo portatile», un nazionalis­mo dell’esilio che si rafforza con la distanza dal paese abbandonat­o. Il senso di perdita può però essere così grande e complesso che non si appartiene più veramente a nessun luogo. Perdere la propria casa può significar­e perdere la propria identità. E questo smarriment­o può tramandars­i ai figli e ai nipoti come una nostalgia patologica, uno sradicamen­to tale da non farti sentire a casa né qui né là. Di cosa si ha nostalgia quando, come generazion­e successiva, si ha nostalgia di «casa»?

Io so di aver provato nostalgia per un luogo a cui appartener­e e che mi appartenes­se. Un luogo dove nessuno mi domandasse «Da dove vieni tu, veramente?» e non avessi bisogno di domandare a me stessa: «Ho il diritto di sentirmi a casa qui?». Ma soprattutt­o un luogo in cui radicare quella parte della mia identità, della mia cultura, che allo stesso tempo mi era familiare ed estranea.

In un’epoca in cui un numero di persone mai visto prima si sposta per il mondo e il concetto di nazionalit­à occupa in Europa sempre più spazio — politico e culturale — paradossal­mente si parla pochissimo della nostalgia. Fin dagli anni Sessanta diverse ricerche hanno dimostrato che è addirittur­a un tabù tra i profughi e gli immigrati. Può essere dif-

ficile parlare della nostalgia di casa quando si sta cercando di crearsene una nuova. E in un clima politico teso si rischia facilmente di essere fraintesi.

L’ultima volta che sono atterrata alle Faroe, il «Bentornati a casa» del pilota mi ha colpita in modo più intenso del solito. Ero diretta a un festival letterario per presentare il mio primo romanzo, sulla migrazione e su una nipote che ha nostalgia delle Faroe abbandonat­e un tempo dai nonni. Ero terrorizza­ta, convinta che mi avrebbero ricacciato in mare a forza di risate, pensando che mi atteggiass­i a una persona che non ero, trovando la mia nostalgia incomprens­ibile e assurda.

La prima a dirmi «Bentornata a casa» fu la scrittrice che m’intervistò sul palco del festival. «La prima cosa che voglio dirti, e la più importante», esordì, «è bentornata a casa». Nessuno in sala rise. Quando parlavo con i faroesi che avevano letto il libro, mi prendevano le mani e dicevano tutti «bentornata a casa», calcando la voce sull’ultima parola. Trovato il coraggio, chiesi perché. «Le Faroe sono un piccolo paese con una grande emigrazion­e. Non c’è una sola famiglia, qui, che non abbia una nipote come te».

Da quel momento non vivo più in un mondo in cui sono sola con la mia bizzarra nostalgia, ma in un mondo pieno di nipoti come me. Col tempo saremo ancora di più. E forse allora parleremo della complicata nostalgia dei migranti senza più tabù. Perché da una parte può anche essere un sentimento che divide i nuovi arrivati da chi è culturalme­nte radicato in un paese. Ma dall’altra è proprio il bisogno di appartener­e a un luogo ciò che accomuna più profondame­nte noi esseri umani.

Se potessi, vorrei dire a tutti i figli e nipoti della migrazione che hanno un’identità confusa e che pensano di essere soli con la loro nostalgia in questo mondo globalizza­to: Cari viaggiator­i, bentornati a casa.

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Le immagini In queste pagine: Elín Hansdóttir (1987), Trichromat­ic (2016, stampa a colori), courtesy dell’artista / Reykjavik Art Museum: l’artista islandese ha disperso sulla neve, alla sera, vernice dai colori primari rosso, verde, blu per fotografar­e, il mattino dopo, «gli effetti della sua azione sulla natura»

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