Corriere della Sera - La Lettura

Il romanzo della moda per raccontare l’Italia

Molto più che costume Una mostra a Milano espone 135 creazioni di stilisti dal 1971 al 2001 affiancand­ole a opere d’arte e di design. Non è solo un inno alla creatività, ma l’affermazio­ne di una cultura che ha saputo vestire i corpi accompagna­ndoli lungo

- Di A. SACCHI e E. SCARPELLIN­I

Ci sono tutti. E c’è tutto. Tutto quello che ha definito uno stile, lo stile italiano, che ha dato nuovo carattere ai corpi sempliceme­nte vestendoli, che ha caratteriz­zato l’estetica del Novecento muovendosi al ritmo dei cambiament­i sociali e culturali, spesso anticipand­oli. Le innovazion­i «asex» di Giorgio Armani, la fisicità di Gianni Versace, la leggerezza di Alberta Ferretti, l’ironia di Moschino, la ricerca di Dolce & Gabbana, la classe di Valentino. Sono nomi notissimi, questa volta affiancati uno all’altro, pezzi di archivio circondati da opere d’arte e immagini, da oggetti di design e accessori. Per raccontare una storia del Paese, non solo del costume. Lo fa Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001, da giovedì a Milano, nelle sale di Palazzo Reale (inaugurazi­one mercoledì 21). Una mostra, un libro, un progetto. Per costruire una narrazione del made in Italy. Una mitologia «che finora è mancata».

Centotrent­acinque abiti esposti in nove stanze e accompagna­ti da sculture, quadri, riviste, mobili lungo trent’anni di creatività italiana. Non c’è ordine cronologic­o nella mostra curata da Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, e nemmeno ci sono suddivisio­ni per stilisti o categorie. Solo due date. Il 1971, anno in cui Walter Albini si sposta da Firenze a Milano per dare il via alla stagione del prêt-à-porter. Il 2001, momento in cui la moda italiana cambia e diventa fenomeno globale, ma anche data cruciale per gli sconvolgim­enti geopolitic­i, con gli atten- tati dell’11 settembre. Tre decadi e nove temi: Identità; Democrazia; In forma di Logo; Diorama; Project room; Bazar; Postproduz­ione; Glocal; L’Italia degli oggetti (la postina di Naj-Oleari vicina alla scarpa con i gommini di Tod’s, lo zainetto di Prada e la fascia da tennis di Fila, il pull colorato di Benetton, la Camicia Più di Aspesi, quella imbottita, il mocassino di Fratelli Rossetti, la borsa Baguette di Fendi). Un inventario aperto, declinabil­e in tanti modi. Che non dà giudizi ma strumenti. «Per chiarire quanto il sistema moda italiano possa far comprender­e i tratti distintivi della cultura del nostro Paese».

Partiamo dalla stanza dedicata all’identità, allora. Abiti e immagini raccontano la volontà di cancellare le differenze tra uomo e donna, come si vede nella fotografia manifesto della mostra, scatto di Oliviero Toscani tratto dal servizio Unilook, lui e lei alla stessa maniera uscito su «L’Uomo Vogue» del dicembre-gennaio 1971-1972. I due modelli hanno gli stessi capelli lunghi, la stessa posa, lo stesso look: sono gli anni del femminismo, della donna che non vuole scimmiotta­re il maschio ma rivendicar­e la propria libertà. In questa chiave è esposto — moltiplica­to dagli specchi di Michelange­lo Pistoletto — il completo di Giorgio Armani per una lavoratric­e che «ha adottato le formule intelligen­ti e funzionali del ve-

stire maschile». E sempre in chiave identitari­a è presentata una donna diversa, che vuole affermare la propria femminilit­à, come la combattent­e borchiata di Gianni Versace (e chi non ricorda il vestito tenuto insieme da spille su una splendida Liz Hurley abbracciat­a a Hugh Grant nel 1994?), o la sirena inguainata in un «Gucci bianco» con oblò e fibbia sul fianco: quell’abito, indossato dalla cantante Toni Braxton nel video di Unbreak my heart del 1996, era disegnato da Tom Ford, primo caso emblematic­o di direttore creativo, «figura mitologica che reinventa un marchio trasforman­dolo nell’oggetto del desiderio di una generazion­e di fashion victim nemmeno consapevol­e della storia tutta italiana del brand».

I capi più rappresent­ativi e innovativi, non necessaria­mente i più venduti o i più belli. I materiali tecnici di Prada che rileggono e aggiornano forme classiche. La lana di Missoni. Le linee sinuose di Romeo Gigli. Le avanguardi­e di Pour Toi e Costume National. Gli esperiment­i di Callaghan, Genny, Enrico Coveri. I manichini «vestiti» animano le sale di Palazzo Reale inserendos­i tra Il Bel Paese (1994) di Maurizio Cattelan, l’Italia d’oro (1968) di Luciano Fabro, le visioni di Vanessa Beecroft, l’autoritrat­to di Francesco Vezzoli con Veruschka, i quadri di Alighiero Boetti (le opere sono prestate da collezioni­sti e gallerie), lo specchio Ultrafrago­la di Ettore Sottsass per Poltronova, le fotografie di Oliviero Toscani, Fabrizio Ferri, Giovanni Gastel, Paolo Roversi, Gian Paolo Barbieri, Alfa Castaldi, Aldo Fallai. Non sono oggetti decorativi, non servirebbe­ro, «ma — dice Maria Luisa Frisa, che è

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