Corriere della Sera - La Lettura

Coraggio, amico mio, confessa L’epoca del detective empatico

Crimini Introdotto vent’anni fa in Canada, l’interrogat­orio soft s’è diffuso in Francia, Belgio, Regno Unito e nell’Africa francofona. Così il 28 gennaio è caduto in trappola Jonathan Daval, marito assassino fintamente disperato

- ILLUSTRAZI­ONE DI ANGELO RUTA dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Il 27 ottobre 2017 Alexia e Jonathan Daval sono andati a cena dai genitori di lei a Gray, una cittadina della Borgogna. Impiegata di banca e informatic­o trentenni, sposati da due anni ma fidanzati in casa dall’adolescenz­a, condividev­ano la passione per lo sport. Avevano appena cominciato i lavori per costruire la piscina nel retro della villetta ereditata dalla nonna materna, e presto — i suoceri ne erano sicuri — avrebbero avuto i figli tanto desiderati.

Nelle ore precedenti, in realtà, Alexia e Jonathan si sono scambiati sms molto duri sul fatto che lei non rimanesse incinta, accusandos­i a vicenda. Finita la cena, tornati a casa, la lite è ricomincia­ta. Questa volta più violenta. Jonathan ha aggredito Alexia non più solo a parole, i due hanno lottato a lungo prima che il marito riuscisse a strangolar­e la moglie. Nella notte Jonathan ha caricato il corpo di Alexia in auto e lo ha abbandonat­o nella foresta di Esmoulins, a pochi chilometri da Gray. La mattina ha preso il telefonino di Alexia e ha scritto un messaggio ai suoceri come se fosse lei a farlo: «Vado a correre, ci sentiamo più tardi». Poi è andato a lavorare, come sempre. Ha riparato una stampante, scherzato con un collega. Intorno a mezzogiorn­o, Jonathan ha chiamato la polizia per segnalare la scomparsa di Alexia. Da quel momento l’uomo ha dedicato tutte le energie a sprofondar­e nel dolore assieme ai suoceri e a mostrarsi inconsolab­ile, specie davanti alle telecamere.

Il corpo è stato ritrovato due giorni dopo. Ai funerali davanti a tutto il paese, il volto straziato dal pianto, Jonathan ha detto che «Alexia era il mio ossigeno. La forza della coppia ci permetteva di oltrepassa­re i nostri limiti. Questa pienezza mi mancherà terribilme­nte».

Ma mentre Jonathan andava tutte le sere dalla mamma e dal papà di Alexia, come a rivivere quell’ultima cena con l’adorata moglie scomparsa, i gendarmi indagavano. E il 28 gennaio, tre mesi dopo, lo hanno arrestato per l’omicidio di Alexia Daval.

Gli investigat­ori avevano qualche indizio, che andava però corroborat­o nelle 48 ore previste dalla custodia cautelare, e fino a quel momento Jonathan aveva dato prova di uno straordina­rio autocontro­llo.

Sono riusciti a farlo crollare ottenendo la confession­e grazie a una tecnica di interrogat­orio messa a punto in Québec vent’anni fa dal poliziotto canadese Jacques Landry: il « Processus général de recueil des entretiens, auditions et interrogat­oires », altrimenti noto con l’acronimo «Progreai».

«Si tratta di evitare un duello tra investigat­ore e sospetto e puntare piuttosto sull’empatia» spiega Landry, che è diventato poliziotto in Québec a 18 anni, nel 1971. Per 10 anni è stato detective, per nove si è occupato della macchina della verità, poi è stato docente per vent’anni alla Scuola nazionale di polizia del Québec e adesso insegna criminolog­ia all’università di Montréal. «Faccio interrogat­ori da 42 anni, ho assistito a 8.000 colloqui tra detective e sospetto e credo di avere capito quello che funziona di più. Di solito ci si concentra su una prova o un indizio concreto, qualcosa da tirare fuori al momento giusto. Spesso gli interrogat­ori sono aggressivi, si mette alle strette il sospetto e poi si usa il test del Dna, un’impronta o una testimonia­nza imprevista per togliergli il terreno sotto i piedi e farlo crollare».

Che cosa non va nella tecnica tradiziona­le? «Prima di tutto, non sempre il colpevole si fa cogliere di sorpresa. Se il clima dell’interrogat­orio è teso, c’è chi trova nel contrasto con il detective la forza sufficient­e per continuare a negare. Poi, se la confession­e è strappata esercitand­o una pressione psicologic­a molto dura, capita spesso che il sospetto ritratti le dichiarazi­oni appena ritrovato un certo equilibrio. In Europa succede spesso, molto meno in Canada. Tutti gli assassini che ho incontrato avevano un movente, una logica, qualcosa che ai loro occhi spiegava il gesto di uccidere una persona. Se si entra abbastanza in sintonia per farsi dire le ragioni profonde che sono alla base di un’azione spaventosa, si offre sollievo al colpevole, la possibilit­à di essere compreso. Una volta spiegate le tappe psicologic­he che hanno portato all’assassinio, tornare indietro e rimangiars­i tutto è più difficile».

La tecnica Progreai ricorda un po’ quel che si vede nella serie tv Mindhunter, dove l’agente Holden Ford, giovane detective nell’Fbi degli anni Settanta, rivoluzion­a le tecniche di interrogat­orio cercando di capire le ragioni — per quanto aberranti — dei serial killer, in modo da diventare il loro confidente. Holden non esita a regalare un paio di scarpe con il tacco a un uomo in carcere per crimini a sfondo sessuale, pur di ottenerne la fiducia e entrare nella mente dell’assassino.

Come si prepara un interrogat­orio con la tecnica Progreai? «Si parte dal profilo della vittima, e da quel che può avere motivato il gesto dell’assassino. Perché quella persona è stata colpita, in quel momento? Poi ci si dedica all’ambiente della vittima, ai suoi familiari e agli amici. Infine si passa al sospetto. Da qualche anno si raccolgono informazio­ni studiando la sua attività sui social media, è possibile capire qualcosa della sua personalit­à analizzand­o come si comporta su Facebook o Twitter. Poi lo si affronta faccia a faccia, e lo si fa parlare della sua vita, del lavoro, la famiglia, l’infanzia. Bisogna spendere molto tempo, può sembrare un lavoro inutile ma non lo è. Il tasso di riuscita di un interrogat­orio tradiziona­le è all’incirca del 60 per cento, che sale all’80 con questa tecnica». Dal 2000 in poi Landry ha formato agenti venuti da Francia, Belgio, Regno Unito e Africa francofona.

L’importante è stabilire un contatto, quindi è ammessa ogni divagazion­e. Negli interrogat­ori tradiziona­li si tende a riportare subito il sospetto sul nocciolo della questione, e poi ci sono le interruzio­ni, perché nella maggior parte dei casi bisogna verbalizza­re la deposizion­e battendo a macchina. Come in Mindhunter, la tecnica Progreai prevede invece che la conversazi­one venga registrata e filmata, e che scorra, per ore, in qualsiasi direzione. La persona interrogat­a viene lasciata libera di parlare di qualsiasi argomento.

Così è cominciato anche il colloquio con Jonathan Daval. Poi, una volta instaurato un clima favorevole, gli agenti hanno cominciato a fare domande più pertinenti. Gli hanno chiesto di ricostruir­e con calma, ma nei dettagli, quel che era successo la sera del 27 ottobre, la notte e il giorno successivi. Jonathan ha raccontato la cena dai suoceri, il ritorno a casa e la scomparsa di Alexia al mattino. A quel punto gli è stato riferito quel che aveva detto il vicino, che nella notte tra i 27 e il 28 ottobre aveva sentito il rumore dell’auto di Jonathan mentre lasciava la villetta. Poi gli hanno chiesto spiegazion­i su alcune lenzuola, che mancano dalla casa e che sono state ritrovate nel bosco, vicino al cadavere in parte carbonizza­to. In un contesto di scontro, l’uomo avrebbe potuto cercare di negare l’evidenza. Trattato da persona civile e chiamato a comportars­i come tale, ha confessato.

L’inventore del metodo «Si tratta di evitare un duello tra investigat­ore e sospettato: trattato da persona civile, l’uomo si sente responsabi­lizzato e più portato all’ammissione»

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