Corriere della Sera - La Lettura

Il dotto fanciullin­o dell’ultimo Novecento

Vocabolari La «cadenza antica» di Fernando Bandini si esprimeva in tre lingue: italiano, latino, dialetto. Qui le parole nascono adulte, ma per essere vive devono ritornare bambine

- Di ROBERTO GALAVERNI

Un «dotto fanciullin­o, ma negli anni del tardo Novecento»: così Andrea Zanzotto ha definito il poeta amico Fernando Bandini. Non si poteva darne un’immagine più precisa. Da un lato perché attraverso l’attrito tra maturità e giovinezza, tra consapevol­ezza e ingenuità o spontaneit­à, vengono richiamati implicitam­ente i suoi due riferiment­i di gran lunga più importanti, vale a dire Leopardi e Pascoli. Dall’altra perché viene posto l’accento sulla vastità della sua cultura poetica, sulla sua eccezional­e competenza in fatto di poesia (non a caso si tratta anche di un critico notevole). Bandini è stato infatti un poeta artigiano, d’officina, che ha amato e padroneggi­ato come pochi la tradizione, il codice poetico, i metri, le rime, gli strumenti espressivi. Al modo degli antichi, ha inteso sempre e comunque la poesia come retorica, come mezzo tecnico, artificio formale, cioè appunto come un’arte al servizio di determinat­e premure e occasioni tematiche, che nel suo caso spesso e volentieri risultano legate alla memoria del mondo infantile, alle sue percezioni, alle scoperte, alle attese, e alla loro reazione con il tempo presente.

Proprio per questa sua disposizio­ne classica, secondo cui il discorso poetico vuol essere qualcosa d’intenziona­le e pienamente responsabi­le, fin da subito Bandini è stato avvertito in varia misura come un poeta un poco anacronist­ico che, per essere ricondotto a quel senso pieno del proprio tempo che per altro assolutame­nte gli compete, abbisognav­a di distinguo e di giustifica­zioni particolar­i, come se fosse necessario recuperarl­o in extremis. Del resto, se il secondo Novecento italiano, almeno nel suo aspetto più eclatante, è stato un’epoca d’eversione espressiva e di sperimenta­lismi conclamati, la «cadenza antica» della sua poesia, come lui stesso la definiva, il riferiment­o ineliminab­ile alla tradizione, l’attitudine costruttiv­a, la chiarezza, la qualità argomentat­iva e razionale del discorso poetico, potevano davvero apparire come fuori tempo massimo. In realtà, così non era; e i suoi lettori più intelligen­ti, a partire da Giovanni Raboni, che di questi è stato insieme il primo e il più importante, se ne accorsero subito, riconoscen­do anzi in quel vicentino che scriveva versi metrici dalle radici

apparentem­ente così profonde, uno sradicato, un uomo di paure, di sogni, di ossessioni, uno scrittore diviso, problemati­co, e insomma: un poeta vero e un compagno di strada.

Da questo punto di vista, la pubblicazi­one negli Oscar Mondadori del volume

Tutte le poesie, curato benissimo da Rodolfo Zucco, per Bandini e per la sua poesia può senz’altro rappresent­are un coronament­o (da segnalare anche l’introduzio­ne di Gian Luigi Beccaria e il saggio biografico di Lorenzo Renzi). In primo luogo perché raccoglie la sua intera opera poetica nelle tre lingue in cui dall’inizio alla fine si è cimentato (italiano, latino, dialetto), conferendo il dovuto rilievo a un autore che ha senza dubbio pagato qualcosa alle ideologie poetiche più à la page dei decenni passati. Ma poi, cosa forse anche più importante, il volume consente di vedere come fin dai primi libretti (in parte confluiti nel 1969 in Memoria del futuro, che fu Vittorio Sereni a volere), lo scrittore si trovasse, certo a modo suo, nel pieno delle operazioni poetiche più significat­ive del suo tempo. Basterebbe scorrere anche solo la bibliograf­ia critica per constatare quali fossero i suoi interlocut­ori, oppure guardare ai temi e ai rovelli espressivi che vengono posti direttamen­te a tema nelle sue poesie. Alcuni tra i testi più belli di Bandini si organizzan­o infatti attorno alla questione stessa della parola poetica e, più in particolar­e, della legittimit­à della

sua particolar­e inclinazio­ne di poeta: Amnesia, Ars poetica, L’usignolo di Erone,

Lapidi per uccelli, In modo lampante, in cui incrocia Sereni con Fortini come ponendoli uno contro l’altro; o ancora la stupefacen­te Epistula ad Andream Zanzotto

poetam, fino a oggi inedita. Il fatto è che nella sua officina trilingue non solo o non tanto per via storico-ideologica, ma per via poetica e in senso lato antropolog­ica, cioè in relazione al fare concreto del poeta, tutti i più significat­ivi snodi problemati­ci del suo tempo vengono al pettine: possibilit­à e limiti della lingua, arte e ispirazion­e, continuità e innovazion­e, impegno, libertà, e via dicendo. I «vocaboli» della poesia sono infatti «spine pungenti a noi rimaste in gola/ nella frattura d’ombra che da sempre divide/ l’essere e la parola». Qualcosa che punge, dunque, ma che pure, dentro alla frattura, si ostina a rimanere.

Non sorprende allora che in questo poeta così consapevol­e, tecnico, maturo già in partenza, la prima ossessione riguardi la pronuncia integra, la parola che restituisc­e e insieme crea il senso, che dà il nome. Non è senza significat­o che di regola si sia riferito alla propria come a una poesia «in lingua morta», con evidente rimando a Pascoli. Così che già al livello compositiv­o o generativo il punto su cui il poeta ha scommesso il proprio onore sia stato questo: non tanto, come in genere accade, dare forma alla vita, ma, in senso opposto, dare spirito di vita alla forma. In Bandini le cose procedono come al contrario e la poesia, o se si preferisce la vitalità, l’efficacia, il respiro delle parole, se arrivano, arrivano alla fine, in modo perfino imprevisto. Il fatto che nei suoi versi nomini Vicenza a rovescio, attraverso il suo palindromo Aznèciv («mio luogo-destino»), non ha a che vedere solo con un sovvertime­nto dei tempi o della natura delle cose, ma col procedimen­to stesso della sua poesia. Nel dotto fanciullin­o Bandini le parole nascono adulte, ma per essere vive devono ritornare bambine. L’infanzia, il paese, la contrada, sono perduti, i tanti e tanti nomi degli uccelli amati rischiano di essere pura nomenclatu­ra, uccelli impagliati, lingua morta. Lapidi

per uccelli, appunto. Ma per il poeta non può essere e, di fatto, non è soltanto così. E infatti: «Forse il loro modo di contare/ somiglia un poco al mio/ quando conto le sillabe dei versi// stoltament­e sperando che una grazia celeste/ mi rimanga impigliata tra le dita».

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