Corriere della Sera - La Lettura
Il dotto fanciullino dell’ultimo Novecento
Vocabolari La «cadenza antica» di Fernando Bandini si esprimeva in tre lingue: italiano, latino, dialetto. Qui le parole nascono adulte, ma per essere vive devono ritornare bambine
Un «dotto fanciullino, ma negli anni del tardo Novecento»: così Andrea Zanzotto ha definito il poeta amico Fernando Bandini. Non si poteva darne un’immagine più precisa. Da un lato perché attraverso l’attrito tra maturità e giovinezza, tra consapevolezza e ingenuità o spontaneità, vengono richiamati implicitamente i suoi due riferimenti di gran lunga più importanti, vale a dire Leopardi e Pascoli. Dall’altra perché viene posto l’accento sulla vastità della sua cultura poetica, sulla sua eccezionale competenza in fatto di poesia (non a caso si tratta anche di un critico notevole). Bandini è stato infatti un poeta artigiano, d’officina, che ha amato e padroneggiato come pochi la tradizione, il codice poetico, i metri, le rime, gli strumenti espressivi. Al modo degli antichi, ha inteso sempre e comunque la poesia come retorica, come mezzo tecnico, artificio formale, cioè appunto come un’arte al servizio di determinate premure e occasioni tematiche, che nel suo caso spesso e volentieri risultano legate alla memoria del mondo infantile, alle sue percezioni, alle scoperte, alle attese, e alla loro reazione con il tempo presente.
Proprio per questa sua disposizione classica, secondo cui il discorso poetico vuol essere qualcosa d’intenzionale e pienamente responsabile, fin da subito Bandini è stato avvertito in varia misura come un poeta un poco anacronistico che, per essere ricondotto a quel senso pieno del proprio tempo che per altro assolutamente gli compete, abbisognava di distinguo e di giustificazioni particolari, come se fosse necessario recuperarlo in extremis. Del resto, se il secondo Novecento italiano, almeno nel suo aspetto più eclatante, è stato un’epoca d’eversione espressiva e di sperimentalismi conclamati, la «cadenza antica» della sua poesia, come lui stesso la definiva, il riferimento ineliminabile alla tradizione, l’attitudine costruttiva, la chiarezza, la qualità argomentativa e razionale del discorso poetico, potevano davvero apparire come fuori tempo massimo. In realtà, così non era; e i suoi lettori più intelligenti, a partire da Giovanni Raboni, che di questi è stato insieme il primo e il più importante, se ne accorsero subito, riconoscendo anzi in quel vicentino che scriveva versi metrici dalle radici
apparentemente così profonde, uno sradicato, un uomo di paure, di sogni, di ossessioni, uno scrittore diviso, problematico, e insomma: un poeta vero e un compagno di strada.
Da questo punto di vista, la pubblicazione negli Oscar Mondadori del volume
Tutte le poesie, curato benissimo da Rodolfo Zucco, per Bandini e per la sua poesia può senz’altro rappresentare un coronamento (da segnalare anche l’introduzione di Gian Luigi Beccaria e il saggio biografico di Lorenzo Renzi). In primo luogo perché raccoglie la sua intera opera poetica nelle tre lingue in cui dall’inizio alla fine si è cimentato (italiano, latino, dialetto), conferendo il dovuto rilievo a un autore che ha senza dubbio pagato qualcosa alle ideologie poetiche più à la page dei decenni passati. Ma poi, cosa forse anche più importante, il volume consente di vedere come fin dai primi libretti (in parte confluiti nel 1969 in Memoria del futuro, che fu Vittorio Sereni a volere), lo scrittore si trovasse, certo a modo suo, nel pieno delle operazioni poetiche più significative del suo tempo. Basterebbe scorrere anche solo la bibliografia critica per constatare quali fossero i suoi interlocutori, oppure guardare ai temi e ai rovelli espressivi che vengono posti direttamente a tema nelle sue poesie. Alcuni tra i testi più belli di Bandini si organizzano infatti attorno alla questione stessa della parola poetica e, più in particolare, della legittimità della
sua particolare inclinazione di poeta: Amnesia, Ars poetica, L’usignolo di Erone,
Lapidi per uccelli, In modo lampante, in cui incrocia Sereni con Fortini come ponendoli uno contro l’altro; o ancora la stupefacente Epistula ad Andream Zanzotto
poetam, fino a oggi inedita. Il fatto è che nella sua officina trilingue non solo o non tanto per via storico-ideologica, ma per via poetica e in senso lato antropologica, cioè in relazione al fare concreto del poeta, tutti i più significativi snodi problematici del suo tempo vengono al pettine: possibilità e limiti della lingua, arte e ispirazione, continuità e innovazione, impegno, libertà, e via dicendo. I «vocaboli» della poesia sono infatti «spine pungenti a noi rimaste in gola/ nella frattura d’ombra che da sempre divide/ l’essere e la parola». Qualcosa che punge, dunque, ma che pure, dentro alla frattura, si ostina a rimanere.
Non sorprende allora che in questo poeta così consapevole, tecnico, maturo già in partenza, la prima ossessione riguardi la pronuncia integra, la parola che restituisce e insieme crea il senso, che dà il nome. Non è senza significato che di regola si sia riferito alla propria come a una poesia «in lingua morta», con evidente rimando a Pascoli. Così che già al livello compositivo o generativo il punto su cui il poeta ha scommesso il proprio onore sia stato questo: non tanto, come in genere accade, dare forma alla vita, ma, in senso opposto, dare spirito di vita alla forma. In Bandini le cose procedono come al contrario e la poesia, o se si preferisce la vitalità, l’efficacia, il respiro delle parole, se arrivano, arrivano alla fine, in modo perfino imprevisto. Il fatto che nei suoi versi nomini Vicenza a rovescio, attraverso il suo palindromo Aznèciv («mio luogo-destino»), non ha a che vedere solo con un sovvertimento dei tempi o della natura delle cose, ma col procedimento stesso della sua poesia. Nel dotto fanciullino Bandini le parole nascono adulte, ma per essere vive devono ritornare bambine. L’infanzia, il paese, la contrada, sono perduti, i tanti e tanti nomi degli uccelli amati rischiano di essere pura nomenclatura, uccelli impagliati, lingua morta. Lapidi
per uccelli, appunto. Ma per il poeta non può essere e, di fatto, non è soltanto così. E infatti: «Forse il loro modo di contare/ somiglia un poco al mio/ quando conto le sillabe dei versi// stoltamente sperando che una grazia celeste/ mi rimanga impigliata tra le dita».