Corriere della Sera - La Lettura

Lettere da due secoli: la lingua come riscatto

Raccolte epistolari Eugenio Salvatore ha studiato 240 testi della grande emigrazion­e italiana: l’uso del dialetto, i primi processi di alfabetizz­azione, la rivincita culturale

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

«Maria, che me stavi a dì?». Nel film Pane e cioccolata, Nino Manfredi — che lavora in Svizzera come cameriere — rientra di notte nella sua stanza, e parla con le lettere dei parenti. Con le voci che escono da quelle lettere poggiate sul comodino: la voce del figlio, del cognato e, appunto, della moglie. «Che quando smorzo la luce la sera, io me sento sola». Le lettere: la tua, la loro voce. Siamo agli inizi degli anni Settanta, ma per i nostri emigranti certe cose non sono cambiate. «Il legame è scrivere», come nel 1903 diceva — sempre per lettera — un tal Antonio Belli al figlio Vittore, emigrato in Francia.

Il problema è come far passare la voce attraverso la scrittura. Perché chi parte, soprattutt­o fino alla metà del secolo scorso, è abituato a esprimersi soltanto in dialetto e con la parola scritta ha ben poca dimestiche­zza. Molti degli oltre 25 milioni di italiani emigrati tra il 1876 e il 1976 erano analfabeti, o quasi. Ma è proprio su quel «quasi» che si gioca l’analisi delle 240 lettere studiate da Eugenio Salvatore nel libro Emigrazion­e e lingua italiana. Studi linguistic­i (Pacini editore). Che a scrivere siano lombardi, veneti, toscani, abruzzesi o calabresi; che scrivano dall’Argentina, dal Brasile, dall’Australia, dalla Francia o dalla Svizzera, tutto sommato cambia poco. Quello che unisce queste lettere — spedite tra la fine dell’Ottocento e la fine del Novecento — è lo sforzo di far passare le emozioni della nuova vita per la strettoia dell’italiano scritto. «Mi scusarete del mio mal tratto per che se penso de a casa sempre mi viene lagrime dagli ochi perche non oh potuto fare quello che volevi fare e la merica mi a aiutato abbastante poco», scrive nel 1891 da Buenos Aires il valtelline­se Giuseppe Pedruzzi. L’oceano in un imbuto. E non solo per gli italiani d’Argentina.

Quando si cerca fortuna all’estero, l’importanza del «saper lettera» diventa ancora più evidente. Perché di lì passano i contatti con la propria famiglia. Non sarà un caso se le parole più frequenti in queste lettere sono proprio quelle che riguardano i rapporti di parentela, insieme a quelle che fanno riferiment­o alla religione e al cibo. Ancora nel 1990, Filomena Di Florio — abruzzese emigrata a Melbourne — scrive «vorrei parlare ma non cè nessuno specie con mia sorella o fratello per grazia a Dio ciò Rita o Livia che qualche volta ci riuniamo (...) Nicola sa facendo le salsicce per noi e per i figli un po’ ciascuno, io mi sento meglio il calostorol­o e sceso a 6 punti».

Di lì — dall’alfabetizz­azione, dalla lingua: anzi, dalle lingue — passa la speranza di riscatto economico e sociale, in uno spazio linguistic­o molto più grande e comples- so di quello di provenienz­a. Un nuovo mondo in cui, oltre al proprio dialetto, contano «l’immagine che si ha dell’italiano, i dialetti di altri connaziona­li conosciuti all’estero e la lingua del Paese d’arrivo». Da un lato, bisogna ambientars­i rapidament­e: «ancora non so neppure una prole in brasilero e per questo non mi posso fare avante ma spero di imparare a conoscere subito», dice il calabrese Celio Cirelli nel 1954. Dall’altro, il rischio è veder sbiadire ancor di più il pro- prio italiano: «mi scuserai del mio scritto perche non o piu scritto in Italian non mi ricordo lutima volta», si conclude una lettera del toscano Enrico Fiori spedita dall’Australia nel 1938.

«Mamma io per dirti il vero l’italiano non so cosa sia», dice (in perfetto italiano) il giovane fuochista del Titanic nella canzone di De Gregori. E in queste lettere, congiuntiv­o a parte, le cose stanno più o meno così. Ecco allora che ci si aggrappa alle formule dei manuali epistolari e al modello dell’italiano burocratic­o. «Onggi li 18. Di Marzio 88 / stimatissi­ma Madre venco conquesta mia lettra per darti le lebuono notizio che io goto unna perfeta Salute E cosi spero Anche divoi». Questo esordio dell’abruzzese Giocondino Menna mostra bene come la grammatica epistolare — quella dei saluti e della salute, dei baci e dei denari, dell’urgenza del dire — prevalga, in condizioni simili, sulla grammatica propriamen­te detta.

La difficoltà nella separazion­e delle parole, l’ortografia zoppicante, la mancanza di punteggiat­ura, l’eccesso di maiuscole ci dicono del faticoso passaggio dall’orale allo scritto. Confermato da una sintassi in cui prevalgono costrutti tipici del parlato: «io damandarvi quello che posso li mandero», «una commare di Bari che gli ho cresimato la figlia», «a ricevuto una tua lettera, dove è rimasta contenda». A lasciare parecchie tracce è anche il passaggio dal dialetto all’italiano: i settentrio­nali scrivono molie,

cerchada, il zio, i toscani bona, nova, foco, li garba; gli abruzzesi londano, parende, lu

padrone. E qua e là fa capolino anche la nuova lingua appresa nel paese d’arrivo: in certe parole (come gli spagnolism­i nena «bambina» o formatura «diploma»), in un certo modo di costruire le frasi («vanno a finire», «avanti di morire», come in francese).

Oggi, quando parliamo di italiani all’estero, pensiamo soprattutt­o ai «cervelli in fuga». Un tempo a scappare dall’Italia erano (almeno per l’80%) le braccia di lavoratori non qualificat­i. Fino al primo Novecento, soprattutt­o contadini: «ora travalglio in un farmo di Cadrigio il mestiere e pesante ma il Padrone mi vol bene». Di qui lo stereotipo dell’italiano rozzo, ignorante, povero, che si è fissato nell’immaginari­o collettivo. Immagine condivisa anche da chi, in Italia, si occupava di emigrazion­e. «Vanno via bruti e tornano uomini civili», si afferma in una delle testimonia­nze raccolte a inizio Novecento dalla commission­e parlamenta­re di inchiesta sulle condizioni dei contadini del Mezzogiorn­o. Secondo un’altra testimonia­nza, il portato dell’emigrazion­e era riassumibi­le in due parole: «corna e denari».

E scrittura, bisognereb­be aggiungere. L’impulso diretto o indiretto che venne dal primo grande esodo fece diminuire drasticame­nte la percentual­e di analfabeti in Italia: dal 62% del 1881 al 48,7% del 1901. «Prima l’esercizio dell’occhio e della mano sembrava ginnastica inutile; ora appare fecondo e santo». La scuola della vita compensa — nei decenni postunitar­i — le carenze di una scuola dell’obbligo che ancora arrancava tra retorica e rigida disciplina. E non si preoccupav­a troppo se perdeva per strada quasi la metà dei bambini. «Perché in nome del progresso della Nazione», cantava un secolo dopo Edoardo Bennato, «in fondo in fondo puoi sempre emigrare».

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