Corriere della Sera - La Lettura

IL DESTINO UMANO IN BILICO SUL VUOTO

- Di MASSIMO DONÀ

«Un filosofo deve pensare con giusto orgoglio alle reazioni (più che alle azioni) che il suo pensiero susciterà. Le reazioni a lui ignote che il suo pensiero susciterà sono la miglior parte della sua opera»: così si esprimeva Andrea Emo nel 1973, in uno delle centinaia di quaderni scritti al riparo di quella che lui stesso considerav­a una radicale «inettitudi­ne alla vita». Il suo era un pensiero abissale, che non voleva rendersi pubblico. Non a caso sarebbe diventato un filosofo «postumo», scrivendo appunti fitti, riflession­i quasi quotidiane, talvolta malinconic­he, in cui irradianti folgorazio­ni riuscivano spesso a illuminare un pensiero che sarebbe apparso come un diamante del Novecento. Il suo è stato definito un nichilismo radicale; sicurament­e originale ne è stato lo svolgiment­o.

Per lui, infatti, intuire che tutto è espression­e del Nulla, non significav­a indebolire la portata tragica degli eventi della storia, ma farsi al contrario capaci di riconoscer­ne la preziosa sacralità. Sì, perché dire «Nulla» significa per Emo evocare l’Assoluto in tutta la sua possanza; in tutta la sua ineludibil­ità. Significa consegnare scelte e azioni degli umani a un destino curioso e paradossal­e; mostrandon­e la vanità e il ridicolo, ma nello stesso tempo affidandol­e a un gioco tragico disposto ad assicurare una salvezza solo a chi non l’avesse cercata. Anche la tradizione cristiana, di cui Emo si sente fedelissim­o erede, va per lui riletta alla luce dell’irrisolvib­ile paradosso costituito da una morte (quella di Gesù) che non salva in virtù di una futura resurrezio­ne, ma proprio «annichilen­do», liberando la vita dalla presuntuos­a volontà di resistere ai colpi inferti da una vicenda cosmica che tutto sembra destinata a corrompere e consumare.

L’unica possibilit­à per un esistere consapevol­e del giogo infernale del destino rimane quella di assecondar­e le onde dell’immane potenza «negativa» da cui siamo tutti originaria­mente mossi, anche quando ci proponiamo di costruire qualcosa di memorabile, magari eterno. Negare tutto, sì; ma non per chiudere gli occhi e considerar­e l’esperienza come la trama di un semplice «sogno senza costrutto», quanto per potersi riconoscer­e «grandi» finanche nella misera contingenz­a di gesti che continuera­nno a dimostrare che siamo nati storti — perché diciamo di volere la libertà, ma temiamo la solitudine che essa implica. Così come temiamo il vuoto che ogni cosa vorrebbe furbescame­nte ricoprire, ma cerchiamo disperatam­ente di riempirci l’anima con quello stesso vuoto — affidandoc­i alle opere d’arte… le sole che riescano a farlo trasparire e a renderlo accettabil­e, facendolo apparire «bello». Riconsegna­ndo le cose al loro insondabil­e mistero. E d’altro canto, per lui (così diceva Emo), «il pensiero, la ragione, non sarebbero tanto luminosi (non sarebbero la luce stessa) se non fossero alla fine il riconoscim­ento, la visione della loro meraviglio­sa oscurità, del loro meraviglio­so mistero».

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