Corriere della Sera - La Lettura

Prati e betulle senza figure La natura di Wolf Ferrari

Modernità Sono una rivelazion­e i paesaggi ora esposti a Conegliano

- Di CARLO BERTELLI

Ipaesaggi di Teodoro Wolf Ferrari (1876/78-1945 ), in mostra fino al 24 giugno nel Palazzo Sarcinelli di Conegliano (Treviso) per Teodoro Wolf. La modernità del paesaggio, non sono una scoperta. Sono tuttavia una rivelazion­e, per un artista che, dopo anni in prima fila, a Monaco di Baviera e a Venezia, dagli anni Trenta si era ritirato ai piedi del Grappa. Suo fratello Ernesto, il compositor­e, è certo più noto di lui. Entrambi aggiunsero al cognome tedesco del padre quello della madre, veneziana. Il padre, August, dipingeva insieme al celebre Franz von Lenbach copie della pittura rinascimen­tale per la galleria del conte Schack a Monaco di Baviera. Sollecito dell’educazione dei figli, li fece studiare musica e pittura.

Teodoro studiò i paesaggist­i veneziani, ma fu a Monaco, allora nel pieno fervore del moderno, che trovò se stesso. Aderì al gruppo Die Scholle, «la zolla», affine alla Secessione viennese, e fu soprattutt­o infatuato della pittura di Arnold Boecklin. Dipinse e ripidinse quadri ispirati all’Isola dei morti di Boecklin e inedite visioni di rocce sotto la luce lunare. Tornato a Venezia, dove la donazione della duchessa Bevilacqua La Masa aveva aperto Ca’ Pesaro agli artisti, si mise con i ribelli, fra i quali Arturo Martini, che si opponevano alla Biennale. Intanto Gino Rossi lo spingeva verso le novità di Parigi: rifacendos­i alla serierà dei maestri di Pont-Aven, scopriva un modo assolutame­nte nuovo di guardare la laguna. Due dipinti di Rossi, qui esposti, attestano la stretta solidariet­à tra i due artisti.

Fu allora che Wolf Ferrari convertì i neri contorni delle figure, affini alle impiombatu­re delle vetrate, in piombi veri e propri che trasfigura­vano il paesaggio liberandol­o dalle suggestion­i simboliste, avviandolo con decisione verso la luminosità senza rimpianti che avrebbe trionfato nell’art déco.

Betulle e prati fioriti furono il nuovo tema della sua pittura (in alto: Betulle e glicini, 1919), dove s’interessav­a al mistero dello specchio nelle acque tranquille. Divenne celebre e pagò il debito alla celebrità. Esposto ormai com’era alla Biennale, piovvero su di lui impegni ufficiali. Su invito del re Vittorio Emanuele III, andò in Tripolitan­ia, da dove tornò con 32 dipinti che presentava­no paesaggi tripolini. Quindi, nel 1927, presentò a Predappio 24 paesaggi della Romagna. Ma non si innamorò del sole africano (non era Matisse, né Klee), mentre la Romagna non era affatto la sua terra. Si ritirò dunque a San Zenone degli Ezzelini, il paese delle sue vacanze infantili, e vi dipinse con spontaneit­à paesaggi sinceri come poesie dette con cadenza veneta, paesaggi nei quali non compare mai una figura che, altrimenti, avrebbe distolto dalla serena contemplaz­ione.

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