Corriere della Sera - La Lettura
Aprite il sipario, ( la vita) è finita
Paure Sarah Kane ha scritto «4.48 Psychosis» a 27 anni e poi s’è uccisa. Quello sconvolto monologo torna a Pescara nella messa in scena di Enrico Frattaroli, che in queste pagine ha raccolto gli appunti di regia, con l’interpretazione di Mariateresa Pascale
Più o meno quindici anni fa mi sono per la prima volta imbattuto in 4.48 Psychosis di Sarah Kane. Ne era interprete Monica Nappo. La Kane aveva scritto il suo quinto e ultimo testo nel 1999; subito dopo, come quello sconvolto monologo preannuncia, si era tolta la vita, a ventotto anni. 4.48 Psychosis sarebbe diventato un testo leggendario ovvero un banco di prova per attrici di ogni dove. Ne ricordo altre cinque italiane, Valentina Capone, Giovanna Bozzolo, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Esdra e, come è stato scritto, la più cechoviana, Elena Arvigo. Ma ne ricordo anche una francese di alto rango, Isabelle Huppert, in un’interpretazionescommessa: tutto il tempo, un’ora, immobile, senza muovere un muscolo.
In questi sette spettacoli mai il regista era particolarmente importante, importante era l’attrice. In più, poco analizzato, a pensarci oggi, fu il testo. Chi si prende- va la briga di giudicare un testo così disperato, così evidentemente esplosivo, così affatturato?
Le cose si rovesciano con la messa in scena di Enrico Frattaroli e di Mariateresa Pascale. La Pascale è un’attrice che non conoscevamo e di indubbio talento: regolare come un metronomo nella scansione dettata dal suo regista, impassibile, fredda — al limite, di elegante monotonia. Nello spettacolo che abbiamo visto al Palladium di Roma (tre repliche) e che si rivedrà già il 23 di questo mese a Pescara — dove è stato prodotto dal Florian Espace, che festeggia i trent’anni di vita teatrale, unica continuità d’Abruzzo se si pensa alla crisi dello Stabile dell’Aquila — nello spettacolo di Frattaroli ciò che di nuovo e innanzi tutto colpisce è l’evidente disparità (a parte Romeo Castellucci) tra questo regista e tutti gli altri.
Parliamo naturalmente di teatro d’invenzione, di teatro d’innovazione, infine di teatro d’avanguardia. Ma una seconda differenza è nel dissimile destino tra Castellucci e Frattaroli. Ricordo un solo operatore teatrale, Renato Quaglia come direttore delle prime edizioni del Festival di Napoli, che si sia realmente accorto dell’eccezionalità di Frattaroli; e il rischio, in casi del genere, quando si è in troppo pochi a impugnare un’idea, è di assumere una parte. Eppure, Frattaroli è Frattaroli e il suo 4.48 Psychosis è del tutto diverso da ogni altro.
All’improvviso ci accorgiamo della debolezza del testo: esso è la pur geniale trascrizione d’una patologia che appare remota nel tempo, legata a un particolare contesto, quello della fine di artisti come Kurt Cobain e Janis Joplin, ma anche Jim Morrison e Jimi Hendrix, o Nico: sensibilità che appaiono consegnate alla storia di un altro secolo. Nelle parole sillabate, spezzate, convulse di Kane il residuo di normatività, di volontà di potenza, quale Frattaroli, come condizione di critica, pone in luce (quando il dominante buio per così dire allenta la sua tensione e in platea appare il regista in persona, a dire con calma ma senza alcun distacco le poche frasi dello psichiatra che Kane ricorda) — in quelle stregate parole l’inconcepibile e ormai dissolta chiusura di chi parla a sé stesso descrivendo la morte che è lì, sulla soglia — in quelle parole si nasconde (e rivela) la vera natura di un testo maledettamente al limite tra la propria esistenza e il teatro: ecco quell’ultima richiesta, «aprite il sipario», di chi sta smettendo di parlare, tra un attimo si toglierà la vita. I quattro microfoni, il buio, le scritte in inglese o tradotte che corrono dietro le spalle di Pascale, la colonna sonora, Mahler e Harvey, che accompagna ogni attimo dell’addio, sono la gloria di quest’altro memorabile spettacolo di Enrico Frattaroli.