Corriere della Sera - La Lettura
Leopardi e la vanitas del Qohèlet Il canto della parola che raggela la vita
Raccolte I versi di Matteo Veronesi ispirati al libro biblico
Essere fedele al proprio dettato interiore è ciò che deve fare il poeta, fino a sembrare sordo e rinchiuso nel suo canto. Da lì, forse, da quella intima necessità di parola, rifioriranno semi a lui stesso sconosciuti. È la legge che un poeta come Matteo Veronesi (1975) sembra metterci davanti, specie con la sua ultima, scarna raccolta di testi, intitolata Tempus tacen
di (Alla chiara fonte). Ispirate al libro biblico della vanitas, il Qohèlet, queste poesie concentrate su un unico, ossessivo tema — quello della vanità, appunto, del gelo, della fine — si protendono misteriosamente verso una possibilità ulteriore di suono e di senso. In effetti i motivi che qui echeggiano sono quelli della parola che raggela la vita, dell’inutilità, della morte. Eppure, mentre il poeta costruisce questa cineraria lamentazione, in versi sonanti e a tratti retoricamente impostati, qualcosa nel suo dire si rivolta. Se scrivere, e scrivere quasi dall’esilio, è come far morire la vita, tuttavia la parola è anche germe.
Suggestionato dal demone leopardiano dell’esclusione dalla vita, è da quella condizione che l’autore pensa il canto come possibile, sia pure con accenti dolorosi. Il canto non sarebbe se non fosse quell’esclusione. Così suggerisce il poeta, con modi eliotiani, rivolgendosi alla propria voce: «Ma forse anche il silenzio che ti ha avvolta / chiude in sé luce e vita / e spirito, e colore – / solo ciò che muore / può rinascere, solo ciò che è perduto / tornare come da un remoto viaggio – / e forse in ogni fine / è un oscuro principio».